Una che scrive contro il rogo

Non sono uno “scrittore”, sono unachescrive. Da unachescrive e da bibliotecaria provo orrore e repulsione per le dichiarazione di una parte di classe politica veneta in merito agli indici di libri da mandare al rogo ed al boicottaggio degli scrittori non graditi. Sono diversi anni che la Lega sta provando ad intervenire nelle biblioteche pubbliche, ha iniziato con pseudo pubblicazioni più o meno propagandistiche o pamphlettistiche donate a pioggia a tutte le biblioteche di un dato territorio e adesso si sta spingendo oltre. Sottoscrivo virtualmente l’appello che si trova qui:

http://www.carmillaonline.com/archives/2011/01/003769.html#003769

Cimarronaje. Carnaval

Quella del Carnaval cimarrón è una tradizione che si distingue dal Carnevale di origine europea, in quanto contiene simboli e contenuti avulsi dai costumi spagnoli; lo scopo della festa è la perpetuazione della memoria delle rivolte degli schiavi neri per ottenere la libertà. Si tratta dunque di una festa di origini africane, molto diffusa nella Repubblica Dominicana e ad Haiti. I centri dominicani più rappresentativi di questa espressione sono Nigua, Haina, San Luis e Guerra, siti che hanno ospitato longevi manieles, ovvero comunità organizzate di cimarrones. In talune epoche questa manifestazione venne ritenuta offensiva per la chiesa cattolica, poiché si svolge durante i giorni sacri della Settimana Santa, in verità probabilmente ciò è dovuto non tanto al calendario cristiano, quanto alla connessione con l’arrivo della primavera. Nella comunità di Matayaya, una settimana prima della domenica di resurrezione, appaiono dei personaggi che si recano di casa in casa a chiedere conto ai genitori del comportamento dei loro figli; durante la domenica di resurrezione poi, un personaggio vestito da diavolo torna nelle case a prendere a sculacciate i bambini per affidarli ritualmente ad un tutore, in segno di ammonimento per i loro cattivi comportamenti. Ma il clou della festa si raggiunge un po’ più tardi: le maschere sfilano dal sabato al lunedì successivo alla Settimana Santa, ognuna è provvista di un’arma con cui vengono picchiati gli astanti, gesto che assume una doppia valenza: la purificazione dai peccati e la rivendicazione della libertà dei neri. La danza ed il ritmo del Gagà, tipici della festa, simboleggiano una cerimonia di transizione fra vita e morte: l’oscillazione frenetica ed enfatizzata del bacino è il simbolo della fecondità primaverile attraverso la quale si omaggiano gli Dei; i riti contemplano il trance e la possessione spirituale, indizi del ruolo che gioca la religione Vudù anche all’interno di questa espressione. Le più diffuse maschere tradizionali del Carnaval cimarrón, denominate cachúas, sono: il cielo, l’inferno, la schiavitù, la libertà, il toro, il Giuda Calié trujillista (personaggio tra mito e storia la cui maschera viene bruciata al cimitero), il diavolo, la vita e la morte. Inizialmente questi riti, come in molte altre aree geografiche, erano dunque una caratteristica delle comunità di origine africana, in seguito gli spagnoli proibirono questi consessi chiusi e li trasferirono all’aperto, circoscrivendoli a date ben precise dell’anno, così da esercitare un certo controllo su ciò che accadeva. Grazie a questa apertura verso l’esterno si venne ad operare un sincretismo con la cultura ispanica.
Trovo il Carnaval cimarrón una espressione autentica e suggestiva di sfogo e resistenza, sovversiva al’interno di un canone, una festa che non può che ispirare simpatia.

http://identidadsanjuanera.blogspot.com/2009/04/el-carnaval-cimarron-sanjuanero.html

Fenomeno Bolaño

Da un po’ di anni le opere dello scrittore cileno Roberto Bolaño, morto nel 2003, stanno riscuotendo grande successo, con conseguente diffusione capillare e traduzione in varie lingue. Da dove viene fuori Bolaño? Padre camionista, madre maestra elementare in un piccolo paese del sud del Cile, quando ha tredici anni la famiglia si trasferisce in Messico. Nel 1973 lui solo decide di tornare in Cile, per vivere il processo di riforme socialiste del governo Allende. Alla fine di un lungo viaggio in pullman, autostop e barca attraverso l’America Latina, arriva nel paese pochi giorni dopo il colpo di stato di Pinochet. In seguito a questo fatto decide di unirsi alla resistenza ma viene incarcerato a Concepción, riesce a farsi liberare dopo soli otto giorni grazie all’aiuto di un compagno di studi, che era tra i poliziotti incaricati di vigilarlo. Questo episodio diventa lo spunto per il racconto Detectives incluso nella raccolta Llamadas telefónicas. La visione memoriale degli anni messicani e la tappa del ritorno in Cile servirono a Bolaño per costruire il suo stesso mito. Al ritorno in Messico insieme all’amico poeta Mario Santiago Papasquiaro ( l’Ulises Lima dei Detectives Salvajes) fondò il movimento poetico d’avanguardia infrarealista, definito come Dada alla messicana, che si era prefisso lo scopo di rompere la tradizione della letteratura ufficiale e di stabilirsi come avanguardia in contrasto con l’establishment letterario rappresentato su tutti da Octavio Paz. Come la maggior parte dei cileni nati dopo Neruda, Bolaño era un idolatra della poesia, le sue poesie giovanili fin dall’inizio avevano la tendenza a diventare delle storie. La tensione interiore, che si scorge fin dalla sua esperienza poetica, viene dall’autore brillantemente rovesciata con la trasformazione delle sue storie in messe in scena della ricerca poetica. Secondo lo scrittore Alain Pauls la vera pulsione che anima la letteratura di Bolaño è il fanatismo in senso preavanguardista: una letteratura piena di poeti, di scrittori, di artisti che però in pratica non producono nulla, ad esempio non si sa mai che cosa scrivano Belano e Lima nei Detective selvaggi. Quel che Bolaño fa è riappropriarsi molto intelligentemente della  tradizione dell’avanguardia. Da questa tradizione riprende più che altro un repertorio di forme di esistenza, di modi di vita che poi, in realtà, è quel che gli è sempre interessato… Dall’altra parte nelle sue opere emerge una propensione un po’ “teppistica”, in un momento in cui la letteratura latinoamericana tendeva ad isolarsi in una specie di comodità pantofolaia. In questo senso contribuì a restituire alla letteratura latinoamericana una certa aggressività di cui si sentiva la mancanza. Una letteratura, infine, che non esclude nessuno, neppure i suoi nemici. Anzi, caratterizzata dalla tendenza ad annettersi tutto.

Bolaño era un polemico, un outsider, un personaggio che, anche grazie alla morte prematura, si sta progressivamente trasformando in mito pop, alla stregua di Corzar. Le sue opere letterarie, che ora appartengono alla vedova Carolina López, vengono gestite dal famoso e temuto agente letterario Andrew Wylie, che sta inventariando l‘archivio dello scrittore ed ha in serbo altre due o tre pubblicazioni postume. A dire il vero la coppia era in pratica separata e lo scrittore aveva una relazione con la catalana Carmen Pérez de Vega, ma tant’è. Se Los detectives salvajes hanno cambiato il paradigma dello scrittore latinoamericano, secondo  Echevarría, 2666, la novela del mal, ha provocato una vera deflagrazione nella società dei lettori statunitensi. L’attrazione di Bolaño per la relazione tra crimine e arte ed il suo interesse per l’investigazione lo rendono estremamente attraente a questo vasto e poderoso pubblico e di riflesso anche a quello europeo. Per finire: mi ha colpito molto una frase pronunciata in un’intervista. Alla domanda dell’intervistatore “come nacque la tal opera?” Bolaño risponde con una sincerità ed una poesia disarmante: Como nacen todas las obras literarias: por casualidad y por desesperación.

Cimarronaje. Perfino il Tango…

Quando, nel 1880, poteva considerarsi definitivamente conclusa la campagna contro l’Indio, iniziavano  ad installarsi in Argentina le prime ondate di immigranti. In queste  circostanze, all’insegna dell’ibridazione e del meticciato, si costituì il fenomeno culturale più caratterizzante della nazione: il tango. Su entrambe le sponde del Río de la Plata, tra Buenos Aires e Montevideo, i neri organizzavano, già dai primi anni dell’ottocento, feste chiamate candombes, all’interno delle quali venivano istituiti balli di gruppo detti tambos, o tangos. Le musiche che li accompagnavano erano contraddistinte da una ricchezza ritmica in contrasto con scarse e brevi frasi melodiche.Verso la fine del secolo, con le merci provenienti da Cuba sbarcò anche la habanera, musica melodica in due quarti, facilmente ballabile. Questi elementi, assieme al Valzer, di origine europea, e la Milonga, proveniente dall’interno del paese, fondendosi vanno a costituire l’ossatura ritmica e melodica del tango.Anche la danza sembra affondare le sue origini nell’esigua componente nera della società argentina: all’epoca dei candombes, infatti,  fra i criollos faceva scalpore l’ombligada, danza considerata sguaiata ed azzardata e, per questo motivo, condannata in varie occasioni sia dal clero che dalle classi alte. Nel 1852 la minoranza nera che abitava nei pressi di Buenos Aires (e già!), dopo l’espulsione di Rosas, era stata segregata negli ormai mitici quartieri di San Telmo e Montserrat, ai bordi della città, in cui iniziavano ad incorporarsi anche gli immigrati ed i compadres, argentini di seconda  generazione ed oltre, ex combattenti o semplicemente gauchos trasferitisi in città. Le antiche ed ampie dimore coloniali, ora dette conventillos, vengono  suddivise in piccoli appartamenti,  in cui la milonga si suona al ritmo delle percussioni di origine africana e si inizia a ballare come una sorta di habanera ma con cortes y quebradas, ovvero interrompendo e riprendendo di scatto la danza nell’intento di dimostrare abilità nell’improvvisare le figure. L’uomo dirigeva il passo comunicando con la donna attraverso una lieve pressione della mano destra sulla schiena di lei, che aveva il compito di seguire ed intuire le figure successive, infatti la peculiarità del tango sta nel non essere una danza con figure prestabilite, nel non avere mai maturato sequenze fisse al contrario degli altri balli di sala. E’ opinione diffusa che i tanghi non fossero, da principio, corredati da testi; in verità il canto era un elemento presente fin dall’inizio, pur essendo pressappoco improvvisato o comunque di poche pretese, monotono o scherzoso, spesso scurrile; ma quando Carlos Gardel, nel 1917, cantò  per la prima volta Mi noche triste al teatro Esmeralda, creò lo stile, il canone del tango-canción, pur trattandosi di un brano musicale già noto cui erano state aggiunte le parole: tutte le norme basilari in materia di canto, lessico e tematiche del testo vengono fissate a partire da quella prima interpretazione e da essa si dirama ed accresce il genere.

Mostrare e dimostrare le assenze

Un fratello piccolo, dopo più di 30 anni, utilizza il suo ingegno ed il suo talento come fotografo per dimostrarci, se ancora ce ne fosse bisogno, che è accaduto davvero, che non è solo fiction quello di cui un po’ tutti abbiamo sentito parlare e che oggi a taluni risulta una storia ripetitiva e lontana nel tempo e nello spazio. Su suggerimento del “tano” de largentina.org mi reco a questa mostra senza sapere di preciso cosa aspettarmi: AUSENC’AS di Gustavo Germano. Il luogo è tecnologicamente all’avanguardia e ben curato, l’allestimento minimale ma sofisticato. In mostra 14 foto di allora ed altrettante di oggi, in quelle degli anni ’70 le persone raffigurate sono di più, ti avvicini e capisci. Le medesime foto sono ricostruite 30 anni dopo. Quello che risalta è l’assenza, il lutto, il legame familiare o d’amicizia, la solitudine di chi è rimasto ed il senso di ingiustizia per chi non c’è più. In una di queste riconosco l’autore, il più piccolo di 4 fratelli, il più grande è scomparso, nella brochure c’è la sua storia di resistenza e di morte. In un’altra una bambina fra i 2 genitori felici su un lettone, in quella attuale una giovane donna da sola, al’incirca la mia età, di foto così vicino ai miei io ne ho a profusione. Il cuore mi si stringe, le lacrime escono da sole, l’espressione del mio viso resta congelata in quella sofferenza che posso condividere, ma i cui aspetti più crudeli ed intimi nemmeno so immaginare. Un paradossale senso di rabbia e rassegnazione mi lascia in silenzio.

Libreria Spagnola a Roma: sopralluogo

Durante queste festività natalizie ho avuto modo di visitare personalmente la rinnovata Libreria spagnola, di cui ho parlato in precedenza. Al pubblico ho trovato 2 ragazzi spagnoli ed un’italiana, ha un aspetto più curato, l’ambiente non è  ampio, ma da un’idea di spaziosità. Mi sono sentita rincuorata all’idea che non farà parte di nessuna grande catena di librerie e manterrà le sue caratteristiche originali. L’offerta non è immensa, soprattutto per quel che riguarda l’America Latina, ma avendo le idee chiare si può ordinare qualsiasi titolo, c’è anche una micro sezione di libri in lingua portoghese e diversi libri per bambini.

Cimarronaje. Le origini

Nella sua Historia universal de la infamia Borges di sfuggita ci racconta di come il frate Bartolomé de Las Casas, essendo all’epoca uno dei pochi ad avere pietà degli indios che lavoravano come schiavi nelle piantagioni, chiedesse al re di Spagna di interrompere questa pratica brutale e gli suggerisse di far arrivare schiavi neri dall’Africa, il che presupponeva che fossero più forti, più docili e meno umani, quindi non convertibili al cattolicesimo e sacrificabili senza tanti scrupoli di coscienza. Invece i neri seguitarono a fuggire, a lottare, a resistere e per di più si convertirono, seppure a modo loro.

Il termine cimarrón (aggettivo e sostantivo) indicava in origine gli animali, come il maiale o il cane, che da domestici ridiventano selvatici; lo stesso termine viene usato la prima volta nella Real Cédula dell’11 marzo 1531 per definire gli schiavi indios ribelli in fuga dalle piantagioni delle colonie spagnole d’America. Quello delle piantagioni era un modello politico ed economico sperimentato dai Portoghesi a São Tomé sin dal 1485 e quindi trasferito e sviluppato da Spagnoli, Inglesi, Francesi e dagli stessi Portoghesi nel continente americano. L’etimologia del termine cimarrón è incerta e discussa: sembra non accettabile la tesi che lo fa derivare da cima, a significare coloro che si rifugiano su monti e cime impervie, ma se anche la derivazione non è esatta, la suggestione è corretta e molto diffusa: nell’immaginario il cimarrón è colui che simbolicamente torna in alto, riemerge a respirare, si eleva dalla sua infima condizione di schiavo. E’ possibile che il termine derivi dal taíno simarron ovvero fuggitivo, silvestre e selvaggio. Lo ritroviamo nella Historia general y natural de las Indias, 2ª ed., Siviglia, 1543 di Gonzalo Fernández de Oviedo che, curiosamente, parlando del’isola di Hispaniola la descrive come piena di selvaggina cimarrona ed indios cimarrones, quasi a significare l’impossibilità di controllare il territorio da parte dei coloni, l’ambiente sfugge ma non si fa più ostile come nelle prime cronicas. Il termine con il tempo assume anche altri significati: la mandria non addomesticabile, una specie vegetale sopontanea di cui però esiste anche la coltivazione, come ad esempio un grano selvatico, il mate bevuto amaro. Esistono poi attualmente diversi movimenti artistici che si sono appropriati di questo termine, per indicare la continuità con il passato e contemporaneamente la volontà di liberarsi o mantenersi liberi dagli schemi artistici o sociali preconfezionati. Per maggiori dettagli consiglio una risorsa reperibile in parte anche in rete:

Fernández Retamar, Roberto, “Cimarrón: apuntes sobre sus primeras documentaciones y su probable origen“. In Revista española de antropología americana, 13, p. 47–57. Madrid : (1983).