Eldorado: prodromi e spedizioni

bracciaoroL’oro. Elemento che nella modernità è divenuto una delle maggiori ossessioni dell’essere umano: oggetto di culto, adorazione, bene economico, elemento ornamentale, simbolo di potere. Durante il corso dei secoli una strana mistica mantiene uno stretto ed intimo legame tra questo metallo e l’uomo, che progressivamente ha sviluppato un’avidità autodistruttiva ai limiti dell’inverosimile.

Ma quando questo amore per l’accumulo si trasforma in ossessione per l’umanità? Forse proprio con le possibilità innescate dalla scoperta del nuovo mondo. I “conquistadores” erano anch’essi emigranti in cerca di fortuna. Spesso provenivano dalla piccola nobiltà spagnola decaduta in seguito alla crisi dell’agricoltura, ovvero erano Hidalgos come quel famoso cavaliere della Mancha che si era rifugiato nei romanzi cavallereschi. I loro sogni di gloria e di rivalsa per uscire da una condizione di povertà inaccettabile e vergognosa venivano alimentati dai racconti dei naviganti che tornavano carichi di ricchezze, così in tantissimi misero insieme i loro pochi averi e partirono con un solo obiettivo: erano i protozii d’America. Quelli che volevano tornare carichi e opulenti per far morire d’invidia i paesani che li avevano sottoposti ad umiliazioni inaccettabili e non avevano paura di soffrire patimenti ignoti pur di raggiungere il loro scopo.

A quanto pare Cristoforo Colombo una volta disse:” Con l’oro chiunque può fare in modo che la propria anima entri in Paradiso”. Con questa ossessione impiantata come un cancro nella mentalità europea del XVI secolo, l’America si vide invasa da conquistatori senza scrupoli in cerca prima di tutto ed a qualsiasi costo di oro. In questo contesto nacque il mito di El Dorado, una sfavillante città o regno d’oro che sorgeva in mezzo alla giungla, in linea di massima nella zona centrale della Nueva Granada, attuale territorio colombiano, sebbene a seconda dell’origine e dell’epoca della versione, poteva essere localizzata anche nell’interno del Venenzuela, nella selva amazzonica o in qualche parte delle Ande, poteva assumere nomi diversi ma comunque non differivano molto nella sostanza. La febbrile immaginazione degli esasperati conquistadores, li condusse a vedere nei propri deliri una città che brillava di strade ed edifici d’oro, in cui esso era così abbondante che in pratica tutto vi si costruiva e confezionava.

Nelle varie “crónicas de indias” che sono arrivate fino ai nostri giorni, non c’è modo di determinare con sicurezza in che momento, luogo o circostanza nacque il mito del Dorado, sebbene esistano varie teorie a riguardo. E’ possibile che fin dall’arrivo dei primi conquistatori abbia iniziato a prendere piede la leggenda, dal momento che i primi abitanti che presero contatto con Colombo parlavano di alcuni luoghi remoti in cui abbondava l’oro in quantità smisurate, cosa che fomentava l’immaginazione degli europei; questa narrazione si susseguì costantemente in ogni luogo in cui venivano interrogati gli indigeni riguardo all’origine del metallo con cui si adornavano. Spesso ciò era il risultato della disperazione delle popolazioni che, vedendo minacciato il proprio mondo e la propria vita, inventavano storie su posti lontani pieni d’oro, al fine di allontanare gli invasori. Sfortunatamente questo non accadde praticamente mai. A causa di questa voce che si rincorreva insistente, Colombo cominciò a credere di poter incontrare luoghi traboccanti d’oro e già nel 1514 Vasco Núñez de Balboa, scopritore del Mare del Sud ovvero del Pacifico, partì da Panama in direzione dell’attuale Colombia inoltrandosi nella giungla alla ricerca della città d’oro.

MOMENTO INTRINSECO E ARBITRARIO

Sempre più spesso mi stupisco nel constatare quante profonde connessioni esistano fra Fisica, Letteratura e Filosofia e soprattutto quanto si stiano sempre di più interlacciando nella contemporaneità. Forse semplicemente perché dietro tutto questo ci siamo noi, gli esseri umani che ostinatamente cercano risposte e si nutrono di misteri.

La recente e casuale scoperta nei laboratori del Gran Sasso ha riportato in tutto il mondo alla ribalta il neutrino, quello di Majorana, quello che ha una massa. Ora sappiamo che con tutta probabilità raggiunge velocità superiori a quella della luce. Lo scorso aprile il caso della “scomparsa misteriosa e unica di Majorana” (F. Battiato – Mesopotamia) è stato riaperto dalla Procura di Roma, a 73 anni di distanza.

Nel 2006 il fisico ucraino Olaf Zaslavskii propose un’ipotesi suggestiva sulla scomparsa di Majorana. Il fisico avrebbe organizzato una “sparizione quantistica”, secondo principi di casualità e di probabilità, escludendo le certezze.  Lo scienziato è sia vivo che morto, dipende dall’osservatore, come il famoso gatto di Schrödinger: suicidato, fuggito all’estero, rapito, monaco in un convento, collaborazionista. L’ipotesi trae spunto dalla meccanica quantistica secondo cui le particelle del mondo subatomico hanno una doppia essenza: possono comportarsi come onde o come particelle. In questo ambito regna il principio di indeterminazione di Heisenberg, una legge fisica secondo la quale non è possibile seguire il destino di una singola particella ma, solo in termini statistici, di un numero consistente di esse. Secondo il fisico ucraino Majorana, profondo conoscitore di Pirandello, avrebbe messo in scena un “dramma quantistico” attribuendosi contemporaneamente il ruolo di protagonista e di spettatore.

Il fisico (o metafisico?) siciliano è stato di recente riconosciuto in una fotografia del 1950 accanto ad Adolf Eichmann, uno dei peggiori criminali di guerra nazisti. I due si trovano sul ponte del piroscafo Giovanna C., partito da Genova con destinazione Buenos Aires.  L’immagine, che era stata pubblicata da Simon Wiesenthal nel libro Giustizia, non vendetta, è stata analizzata accuratamente dalla scientifica, che ha rilevato numerosissime convergenze con una foto del giovane Majorana. Wiesenthal non era riuscito a dare un nome al personaggio con gli occhiali da sole vicino ad Eichmann, la distanza fra i due è abbastanza ravvicinata, ma non è detto che si conoscano. Si deve comunque considerare che Majorana, alcuni anni prima di scomparire, a Lipsia conobbe il fisico Werner Heisemberg, notoriamente simpatizzante del nazionalsocialismo,che aveva esercitato su di lui un grandissimo fascino.

A quanto pare, dopo aver rinnovato il passaporto e ritirato diverse mensilità di stipendio, Majorana fugge in Argentina, e vive a Buenos Aires senza cambiare identità. La “pista argentina” del caso Majorana prende avvio nel ’78 da un articolo di Giulio Gullace pubblicato sul settimanale Oggi, tre anni dopo l’uscita del libro di Sciascia dal titolo La scomparsa di Majorana. L’articolo riportava la testimonianza del professor Carlos Rivera, dell’Istituto di fisica dell’università cattolica di Santiago del Cile, che raccontava di aver conosciuto a Buenos Aires una donna il cui figlio, laureando in ingegneria, sosteneva di essere amico dell’italiano Ettore Majorana, che aveva lavorato con Fermi ed aveva lasciato l’Italia proprio in seguito a contrasti con lui. Il professor Rivera però non riesce a incontrare questa persona che dice di essere il fisico scomparso perché il giorno dopo parte per l’Europa. Dopo quattro anni torna a Buenos Aires, ma trova la porta di casa della madre dell’ingegnere sprangata; i vicini lo avvisano che i due sono “scomparsi”, probabilmente vittime della polizia peronista. Nel 1960 il professor Rivera è di nuovo a Buenos Aires, all’Hotel Continental. Mentre prende appunti su un tovagliolo di carta un cameriere incuriosito gli dice di conoscere un altro cliente che ha l’abitudine di scrivere formule su pezzi di carta: si chiama Ettore Majorana ed è un fisico molto importante fuggito dall’Italia, a volte passa a prendere un caffè in Hotel.

Nel 1974, a Taormina, Blanca de Mora, vedova dello scrittore guatemalteco Miguel Angel Asturias, stupisce tutti raccontando «Ma come vi ponete ancora dei problemi su Ettore Majorana? A Buenos Aires lo conoscevamo in tanti: fino a che vi ho vissuto, lo incontravo a volte in casa delle sorelle Manzoni, discendenti del grande romanziere».
Purtroppo Eleonora Cometta-Manzoni, matematica e amica di Majorana, all’epoca era già morta. Il fisico e biografo di Majorana, Erasmo Recami nel 1980 riesce a contattare la sorella Lilò Cometta Manzoni de Herrera, professoressa di lettere a Caracas, che però dice di non ricordare un Majorana tra le conoscenze di Eleonora, ma non era molto interessata alle sue frequentazioni nel mondo scientifico.  Ci sono altri indizi della presenza di Majorana in Argentina, ma non verificabili. Si sollevano anche dubbi sulla testimonianza di Rivera.

Ma sono stati i dieci punti «coincidenti» e una «compatibilità ereditaria» a convincere i magistrati romani a riaprire l’inchiesta sulla scomparsa di Majorana. Una foto scattata in Venezuela nel 1955 ha riaperto la pista sudamericana. Nel 2008 un uomo telefona alla trasmissione Chi l’ha visto? affermando di averlo frequentato, ma a lui si presentò come signor Bini e dichiara: <<Nell’aprile del 1955 partii per Caracas, poi andai a Valencia con un mio amico siciliano, che mi presentò un certo Bini. Ho collegato Bini e Majorana grazie al signor Carlo, un argentino. Mi disse: “Ma lo sai chi è quello? Quello è uno scienziato. Quello ha una capoccia grande che tu neanche ti immagini. Quello è il signor Majorana”. Si erano conosciuti in Argentina. Era di media altezza, con i capelli bianchi, pochi e ondulati. Era timido, preferiva stare in silenzio. Poteva avere sui 50 – 55 anni. Parlava romano ma si vedeva che non era romano. Si vedeva anche che era una persona colta. Sembrava un principe. Io certe volte gli dicevo: “Ma che cavolo campi a fa. Ti vedo sempre triste”. Lui diceva che lavorava, andavamo a mangiare, poi stava 10-15 giorni senza farsi sentire. Aveva una macchina gialla una Studebacker. Pagava solo la benzina, altrimenti sembrava che non avesse mai una lira. Ogni tanto gli dicevo: “Ci tieni tanto alla tua macchina e c’hai tutta sta carta”. Erano fogli con numeri e virgole, sbarramenti. Lui non voleva mai farsi fotografare e siccome dovevo prestargli 150 bolivar gli ho fatto una specie di ricatto, in cambio gli ho chiesto di farsi fare una foto con me per mandarla alla mia famiglia. Era più basso di me. Quando ho trovato la foto ho deciso di parlare, sennò era inutile che dicevo che avevo conosciuto Majorana>>. Il Ris ha confermato che «Dalle sovrapposizioni sono emerse similitudini somatiche compatibili con la trasmissione ereditaria padre-figlio». Sarà molto difficile, ma i magistrati ritengono che valga comunque la pena nel 2011 tentare ricerche in Venezuela ed Argentina, per individuare la tomba del Signor Bini- Majorana. Se lo guardiamo dall’Italia Ettore Majorana è scomparso misteriosamente 73 anni fa, probabilmente è morto. Dall’Argentina, invece, ha vissuto una vita tranquilla ed in relativo incognito almeno fino alla fine degli anni ’50. Se lo guardiamo dal libro di Wiesenthal potrebbe sembrarci un pericoloso collaborazionista dei nazisti, soprattutto per via delle sue conoscenze. Ma guardato attraverso le lettere scritte di suo pugno e riportate nel libro del fisico João Magueijo sembrerebbe alquanto improbabile. Siamo effettivamente precipitati in un intrigo quantistico, squisito dal punto di vista letterario, probabilmente architettato dallo stesso protagonista. Chissà se a Borges è mai capitato di incontrare un tano che scriveva formule ovunque ed amava Pirandello?

Cimarronaje. Apporto femminile

In alcune società africane matrilineari e matrifocali, traslate forzosamente in America, la donna ricopriva un ruolo importante nello spazio comunitario e familiare, in quanto responsabile delle relazioni sociali tra gli individui. Sebbene schiave, le donne conservarono questa posizione in quanto furono in grado di mantenere e creare vincoli di parentela e di relazione che andarono ad incidere sulla nuova sfera sociale.

La cultura degli schiavi, differente da quella dominante, generò norme di comportamento proprie, ispirate alla tradizione africana o create per dare un senso alla vita all’interno della condizione di schiavitù. La donna africana ricoprì molteplici ruoli: di madre putativa o naturale di figli bianchi, di madre (ed al bisogno anche di padre) per i propri figli, procreati in condizioni forzose con la finalità di aumentare il capitale di schiavi a disposizione dei padroni. Allo stesso tempo la schiava africana stabilì contatti con mulatti, bianchi, neri ed indios, trasformandosi in un importante agente di vincolo culturale permanente fra tutti gli strati sociali dell’epoca, recependo, trasformando e diffondendo la cultura spirituale e materiale afroamericana. Coloro che resistettero alla schiavitù rifugiandosi sulle montagne ed in zone di difficile accesso contribuirono alla costituzione di palenques, quilombos, mocambos e ladeiras, ovvero territori indipendenti con forme proprie di autogoverno. Da questi luoghi, organizzati anche militarmente, agirono per fare pressione e ridonare libertà agli schiavi delle haciendas vicine, affrontando l’esercito coloniale e destabilizzando il sistema schiavistico in difesa della propria libertà.

Talvolta si tende a credere che il popolo nero fosse carente di un progetto identitario complessivo e che si sottomise volontariamente alla schiavitù. Il Cimarronaje dimostra che questa convinzione nasconde una interpretazione forzata della realtà storica, in quanto venne a delinearsi come una delle principali forme di resistenza contro l’ingiustizia della privazione della libertà. La resistenza entra in campo fin dal momento in cui le schiave e gli schiavi vengono trasportati via mare: molti preferirono darsi la morte lanciandosi dalle navi piuttosto che essere sottomessi, altri rifiutarono di nutrirsi,  le donne ricorsero all’aborto volontario. Ciò dimostra che, nonostante le divisioni, non venne mai meno la naturale pulsione umana volta a conseguire la libertà, l’autonomia e terre proprie da coltivare per autosostentarsi. Nei grandi movimenti di insurrezione il popolo nero rivelò le sue qualità di organizzazione collettiva ed il suo impeto nel combattere con la missione di riaffermare la dignità collettiva e individuale dei suoi membri. 

             Manucha Algarín rappresenta una figura emblematica della resistenza alla schiavitù. Fuggì assieme a Guillermo Rivas da Capaya, in Venezuela, e fondò uno spazio libero denominato Cumbe de Ocoyte che tale si mantenne dal 1768 al 1771, anno in cui vennero assassinati dalle truppe coloniali spagnole. Manucha costruì la sua casa con il suo compagno, ebbero dei figli liberi, coltivarono la terra. Nel momento della battaglia contro le truppe spagnole difese i suoi figli, venne catturata e portata a Caracas dove fu interrogata e sottoposta a tortura finché morì. Il suo fu un atto di Cimarronaje frontale, ovvero netto, combattivo e definitivo esattamente come quello maschile. Ultimamente alcune studiose stanno indagando delle altre forme di resistenza e si va delineando la definizione di Cimarronaje doméstico che definisce le azioni di resistenza, nascoste o palesi, intraprese dalle schiave che lavoravano nella casa padronale. La schiava che lavorava all’interno della casa del padrone lottava per imporre le sue regole ed incidere in alcune scelte di sua pertinenza, come ad esempio convincere il padrone della necessità di rimanere lontano dalle fatiche imposte dalla piantagione, oppure mettendo da parte il capitale necessario per comprare la libertà propria e della sua famiglia.

Un discorso a parte merita il mito di  Ma’ Dolores Iznaga, la schiava cubana di origine gangá, guaritrice e rivoluzionaria, che nella seconda metà dell’ottocento venne condannata a morte, e poi miracolosamente graziata, in quanto accusata di nascondere nella sua baracca nei pressi di Cabarnao i ribelli feriti curandoli con saliva, acqua di pozza e preghiere. Su questa donna, che doveva il cognome al suo ex padrone, Don Pedro Iznaga, esistono a Cuba numerosi aneddoti, che insistono in particolare sulla sua misteriosa sparizione. Il luogo in cui sorgeva la sua capanna divenne meta di pellegrinaggio: la gente il venerdì santo si recava a Trinidad con candele e anfore per prendere acqua, molti vi si immergevano vestiti e le rivolgevano preghiere. Altri prendevano pietre dal fondo per benedire le loro case e lasciavano candele nelle rocce. I malati venivano in processione per godere degli effetti dell’acqua miracolosa. I pesci della pozza erano sacri e intoccabili: nessuno poteva pescarli.  Si racconta che Ma’ Dolores sia apparsa in varie occasioni nei pressi del sito, soprattutto durante le ricorrenze del venerdì santo. Numerosi aneddoti e diverse varianti di questo mito sono stati raccolti dallo studioso Samuel Feijóo.