Cimarronaje: Giorno di trecce

Ha fatto grande scalpore qualche mese fa a Panama la denuncia di Hilda  García, madre di quattro figlie, a cui la Preside ha comunicato che una delle figlie non poteva andare a scuola con le treccine. Grazie a ciò si è imposto il tema del divieto alle afrodiscendenti di portare pettinature simili nei centri scolastici di Panama, un tema non nuovo nel piccolo Stato centroamericano. Alla fine ne è nata una campagna per ufficializzare un “Día de las Trenzas” e rivendicare l’identità degli afrodiscendenti contrastando così la dicotomia “pelo bueno” vs “pelo malo” ed il sottile razzismo che ciò implica. Questo festeggiamento ha portato alla luce la castrazione culturale patita in silenzio da molte donne. Il ministro dell’educazione di Panama Lucy Molinar, anche lei afrodiscendente, non ha preso posizione netta a favore delle treccine, ma si è limitata a dichiarare che le treccine non sono proibite nelle scuole statali, besì i capelli posticci e le parrucche colorate, lei è comunque apparsa con i capelli perfettamente lisciati.

La questione da qui sembra di poco conto ma presenta invece molte implicazioni identitarie e culturali, secondo quanto ha recentemente scoperto la sociologa colombiana Lina Vargas.

Queste pettinature secondo molte donne rappresentano il cammino di libertà che intrecciavano le schiave sulle teste delle loro figlie e delle loro compagne. Da esse uscivano mappe del paesaggio circostante e vie di fuga; sulle teste si riproduceva il paesaggio, i fiumi, le montagne e le truppe dell’esercito spagnolo in modo che gli schiavi potessero fuggire consultando le pettinature, i padroni mai sono arrivati a pensare che le schiave li ingannassero in modo così semplice sotto i loro occhi. Inoltre i capelli servirono anche da bottino: semi di mais ed ortaggi per sopravviviere una volta fuggiti e pepite d’oro che gli schiavi trovavano nelle miniere e riuscivano ad occultare.

A San Basilio de Palenque, in Colombia, sono stati catalogati più di 60 tipi di pettinature tradizionali che ricreano paesaggi circostanti o attrezzi da portare in caso di fuga, stato del terreno ed eventi significativi. Non a caso questo piccolo villaggio è stato dichiarato dall’Unesco Opera maestra del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, essendo l’unico Palenque che ancora sopravvive a quattro secoli dalla sua fondazione da parte degli schiavi africani che si ribellarono contro gli spagnoli.

La testa ed i capelli per gli afrodiscendenti sono tavole su cui si scrive l’identità anche individuale: la testa come scenario implica il riconoscimento dell’arrivo ad età significative: il primo anno dei bambini o i quidici delle ragazze sono spesso motivo di cambiamenti estetici che richiamano l’attenzione della comunità e la fanno partecipe di queste transizioni del singolo. I maschi adolescenti possono trasformare il proprio look una volta usciti dall’influenza diretta dei loro genitori, finiti gli anni della scuola, ma mentre per le donne le pettinature si creano in pubblico, magari di fronte all’uscio di casa nei centri rurali, per gli uomini il cambiamento presuppone di norma un rituale più intimo.

Anche nelle grandi città come Bogotà i negozi di parrucchieri sono il fulcro di varie culture afrocolombiane: nel contesto contemporaneo trecce, curly, dreadlooks e pettinature ispirate dai rapper di moda sono una forma di resistenza alla cultura egemonica dei bianchi, si tratta di individuiinseriti in una globalizzazione generalizzata che in questo modo manifestano la propria dissidenza. Poi ci sono le pettinature tradizionali di cui abbiamo parlato sopra, che contengono i significati di libertà e fuga già esplorati. I saloni, chiamati spregiativamente dai bianchi “posti dei neri”, sono luoghi di aggregazione e socializzazione importantissimi: prova ne sia che anche i politici vi si recano per le loro campagne elettorali. L’arte di saper intrecciare i capelli è uno dei ruoli culturali della donna, che assieme ai capelli intreccia le storie della sua famiglia e della comunità, un rituale collettivo esercitato magari in chiassose riunioni casalinghe del fine settimana.

Cimarronaje. Carnaval

Quella del Carnaval cimarrón è una tradizione che si distingue dal Carnevale di origine europea, in quanto contiene simboli e contenuti avulsi dai costumi spagnoli; lo scopo della festa è la perpetuazione della memoria delle rivolte degli schiavi neri per ottenere la libertà. Si tratta dunque di una festa di origini africane, molto diffusa nella Repubblica Dominicana e ad Haiti. I centri dominicani più rappresentativi di questa espressione sono Nigua, Haina, San Luis e Guerra, siti che hanno ospitato longevi manieles, ovvero comunità organizzate di cimarrones. In talune epoche questa manifestazione venne ritenuta offensiva per la chiesa cattolica, poiché si svolge durante i giorni sacri della Settimana Santa, in verità probabilmente ciò è dovuto non tanto al calendario cristiano, quanto alla connessione con l’arrivo della primavera. Nella comunità di Matayaya, una settimana prima della domenica di resurrezione, appaiono dei personaggi che si recano di casa in casa a chiedere conto ai genitori del comportamento dei loro figli; durante la domenica di resurrezione poi, un personaggio vestito da diavolo torna nelle case a prendere a sculacciate i bambini per affidarli ritualmente ad un tutore, in segno di ammonimento per i loro cattivi comportamenti. Ma il clou della festa si raggiunge un po’ più tardi: le maschere sfilano dal sabato al lunedì successivo alla Settimana Santa, ognuna è provvista di un’arma con cui vengono picchiati gli astanti, gesto che assume una doppia valenza: la purificazione dai peccati e la rivendicazione della libertà dei neri. La danza ed il ritmo del Gagà, tipici della festa, simboleggiano una cerimonia di transizione fra vita e morte: l’oscillazione frenetica ed enfatizzata del bacino è il simbolo della fecondità primaverile attraverso la quale si omaggiano gli Dei; i riti contemplano il trance e la possessione spirituale, indizi del ruolo che gioca la religione Vudù anche all’interno di questa espressione. Le più diffuse maschere tradizionali del Carnaval cimarrón, denominate cachúas, sono: il cielo, l’inferno, la schiavitù, la libertà, il toro, il Giuda Calié trujillista (personaggio tra mito e storia la cui maschera viene bruciata al cimitero), il diavolo, la vita e la morte. Inizialmente questi riti, come in molte altre aree geografiche, erano dunque una caratteristica delle comunità di origine africana, in seguito gli spagnoli proibirono questi consessi chiusi e li trasferirono all’aperto, circoscrivendoli a date ben precise dell’anno, così da esercitare un certo controllo su ciò che accadeva. Grazie a questa apertura verso l’esterno si venne ad operare un sincretismo con la cultura ispanica.
Trovo il Carnaval cimarrón una espressione autentica e suggestiva di sfogo e resistenza, sovversiva al’interno di un canone, una festa che non può che ispirare simpatia.

http://identidadsanjuanera.blogspot.com/2009/04/el-carnaval-cimarron-sanjuanero.html

Cimarronaje. Le origini

Nella sua Historia universal de la infamia Borges di sfuggita ci racconta di come il frate Bartolomé de Las Casas, essendo all’epoca uno dei pochi ad avere pietà degli indios che lavoravano come schiavi nelle piantagioni, chiedesse al re di Spagna di interrompere questa pratica brutale e gli suggerisse di far arrivare schiavi neri dall’Africa, il che presupponeva che fossero più forti, più docili e meno umani, quindi non convertibili al cattolicesimo e sacrificabili senza tanti scrupoli di coscienza. Invece i neri seguitarono a fuggire, a lottare, a resistere e per di più si convertirono, seppure a modo loro.

Il termine cimarrón (aggettivo e sostantivo) indicava in origine gli animali, come il maiale o il cane, che da domestici ridiventano selvatici; lo stesso termine viene usato la prima volta nella Real Cédula dell’11 marzo 1531 per definire gli schiavi indios ribelli in fuga dalle piantagioni delle colonie spagnole d’America. Quello delle piantagioni era un modello politico ed economico sperimentato dai Portoghesi a São Tomé sin dal 1485 e quindi trasferito e sviluppato da Spagnoli, Inglesi, Francesi e dagli stessi Portoghesi nel continente americano. L’etimologia del termine cimarrón è incerta e discussa: sembra non accettabile la tesi che lo fa derivare da cima, a significare coloro che si rifugiano su monti e cime impervie, ma se anche la derivazione non è esatta, la suggestione è corretta e molto diffusa: nell’immaginario il cimarrón è colui che simbolicamente torna in alto, riemerge a respirare, si eleva dalla sua infima condizione di schiavo. E’ possibile che il termine derivi dal taíno simarron ovvero fuggitivo, silvestre e selvaggio. Lo ritroviamo nella Historia general y natural de las Indias, 2ª ed., Siviglia, 1543 di Gonzalo Fernández de Oviedo che, curiosamente, parlando del’isola di Hispaniola la descrive come piena di selvaggina cimarrona ed indios cimarrones, quasi a significare l’impossibilità di controllare il territorio da parte dei coloni, l’ambiente sfugge ma non si fa più ostile come nelle prime cronicas. Il termine con il tempo assume anche altri significati: la mandria non addomesticabile, una specie vegetale sopontanea di cui però esiste anche la coltivazione, come ad esempio un grano selvatico, il mate bevuto amaro. Esistono poi attualmente diversi movimenti artistici che si sono appropriati di questo termine, per indicare la continuità con il passato e contemporaneamente la volontà di liberarsi o mantenersi liberi dagli schemi artistici o sociali preconfezionati. Per maggiori dettagli consiglio una risorsa reperibile in parte anche in rete:

Fernández Retamar, Roberto, “Cimarrón: apuntes sobre sus primeras documentaciones y su probable origen“. In Revista española de antropología americana, 13, p. 47–57. Madrid : (1983).

Negro y cimarrón

I cimarrones sono schiavi neri ribelli: fuggono dal padrone e si rifugiano in un luogo appartato, nel quale si organizzano e ricreano una piccola società libera. Per mantenere questi micromondi, detti quilombos o palenques, spesso sono costretti a lottare molto duramente, così come per fuggire. Sono esistiti per davvero. Quasi mai gli indios fuggitivi sono stati denominati cimarrones. Prossimamente vorrei aprire una lunga parentesi su questo argomento ed in generale sui segni della cultura “afroamericana-latina”. Sarebbe carino collaborare e pubblicare anche qualche post dei miei lettori più esperti sull’argomento. Se ne avete voglia battete un colpo!