Lodo Jodo

Alejandro Jodorowsky è un poliedrico artista cileno che vive a Parigi dal 1953. Fu uno dei fondatori del movimento di teatro Panico ed allievo e stretto collaboratore di Marcel Marceau. La notorietà di Jodorowsky si è consolidata negli anni ’70 con la regia cinematografica di film quali Il paese incantato, dall’omonima opera per il teatro di Fernando Arrabal, ed El Topo, che lo rivelò al pubblico internazionale. Jodorowsky collaborò intensamente anche con Moebius, sceneggiando i suoi fumetti fino a tutta la prima metà degli anni ottanta e producendo assieme a lui alcune fra le più belle strisce dell’importante rivista francese Métal Hurlant. Dagli anni ’90 si dedica alla scrittura: tra le produzioni letterarie recenti abbiamo il romanzo Albina o il popolo dei cani, La via dei tarocchi e La danza della realtà. In quasi tutti i libri viene esplorato il rapporto esoterico che lega l’uomo alla divinità. Jodorowsky, grande ammiratore di André Breton, negli anni 60 entra in contatto con una guaritrice messicana, Paquita, vedendo in lei un modo di agire analogo a quello surrealista: i metodi che Paquita utilizza per guarire i suoi “pazienti” non hanno nessun valore dal punto di vista della medicina canonica, ma la forza di suggestione che li pervade è tale da portare spesso il “paziente” a reagire, a intraprendere egli stesso la strada per una guarigione, oppure invece verso l’accettazione serena della malattia. Profondamente affascinato da un metodo di cura così aleatorio eppure così psicologicamente efficace, elabora una forma d’arte che abbia come fine la guarigione e la chiama Psicomagia. Egli propone all’interlocutore un gesto da realizzare in apparenza privo di logica, quello che chiama “gesto poetico”, in realtà con un dirompente impatto emotivo, che lo porterà a vedere e percepire la propria realtà da un punto di vista diverso e inconsueto. L’interlocutore, realizzando il gesto proposto dallo psicomago, spezza la quotidianità delle proprie problematiche e del suo personale vissuto, per arrivare a una nuova percezione del problema. Ne La danza della realtà Jodorowsky racconta di come si rivolse a lui e alla psicomagia per curarsi dalla depressione anche un grande attore italiano, non dice mai il nome ma è facile riconoscere Vittorio Gassman. Gassman non volle compiere il gesto psicomagico suggerito da Jodorowsky, un complesso rituale in cui doveva sgozzare un gallo sulla tomba della madre, dicendogli “ma io non posso. Io sono Gassman”. Per Jodorowsky la risposta rivelò la chiave della depressione dell’attore: il dover “portare” un nome come un’etichetta. Nel 2005, Jodorowsky celebra il matrimonio tra la rockstar Marilyn Manson, suo caro amico, e Dita Von Teese, regina del Burlesque, attualmente ha superato gli 80 anni: in ragione dell’età non incontra più nessuno privatamente e dedica tutte le energia agli stages in giro per il mondo ed alla produzione letteraria. Esistono due occasioni “tradizionali”, a Parigi, che Jodo ha lasciato a disposizione per incontrarlo in un contesto pubblico. La prima è quella di poter fare gratuitamente i Tarocchi con lui recandosi al Cafè Le Temeraire, n. 32 Avenue Daumesnil, métro Gare de Lyon; qui ogni mercoledì alle 15 circa, purché Jodo sia a Parigi o non abbia impedimenti, un numero variabile tra 20 e 25 persone può beneficiare gratuitamente della lettura delle carte lasciando un foglietto con nome e cognome in un cesto. Lui arriva e prende una manciata di biglietti, chi è fra quei nomi può beneficiare del privilegio. La seconda alternativa è assistere alle sessioni del Cabaret Mystique. Va precisato che non si tratta più delle grandi adunate di un tempo che si vedono in DVD e non capita più che durante queste performances Jodorowsky consigli atti psicomagici o faccia “indagini psicogenealogiche” a qualcuno che glielo chieda. Ora il Cabaret Mystique si è trasferito in una saletta da 70 posti circa all’interno della Libreria Les Cent Ciels al n. 12 di Avenue Jean Aicard, métro Ménilmontant. Nel 2007 è uscito per Castelvecchi Psicoposta, raccolta della corrispondenza avuta in questi anni con i lettori italiani di XL, un ottimo libro attraverso cui accostarsi con disinvoltura alla Psicomagia.

Pedro Juan Gutiérrez

Dalle foto sembra un uomo che dedica molto tempo al proprio fisico. Sul viso porta discretamente i segni di chi conosce a fondo la “buena” e la “malavida, e da ciò che scrive ne ho conferma. A diciotto anni decide di voler diventare scrittore, la cosa che più lo interessava era entrare nel mondo privilegiato della scrittura e per questo evita di avvicinarsi a gruppi di autori e di studiare letteratura: non voleva essere contaminato dalle idee degli altri, ma vivere intensamente tutto ciò che poteva per poi  poterlo raccontare. Nel 1998, a 48 anni, pubblica Trilogía sucia de La Habana. Il successo di pubblico e critica è immediato, viene tradotto, oltre che nel mondo di lingua spagnola, in Brasile, Stati Uniti, Italia, Gran Bretagna e Germania, ma quasi contemporaneamente viene licenziato dalla rivista per cui lavorava come giornalista, professione che praticava da 26 anni e per la quale è in possesso di uno specifico titolo di laurea. Si dichiara uno scrittore al quale non interessa inserire la politica nei romanzi, eppure ha subito comunque le conseguenze dell’agire politico sulla sua pelle.

Ora fa parte della Uniòn de escritores cubanos, continua a vivere nel Centro di La Habana, dove dipinge e scrive i suoi libri. La sua opera si pone come denuncia sociale delle miserie della sua città e del suo paese e può essere inscritta nell’ambito del cosiddetto realismo sporco, movimento letterario sorto negli Stati Uniti intorno agli anni settanta che aspira a ricondurre la narrazione ai suoi elementi fondamentali. Come il minimalismo, il realismo sporco è caratterizzato dalla precisione e dalla stringatezza estrema nell’uso delle parole. Gli oggetti, i personaggi, le situazioni sono descritti nel modo più conciso e superficiale possibile, i protagonisti sono esseri volgari oppure conformisti che conducono vite estremamente convenzionali. Tra il 1998 ed il 2003 ha pubblicato i cinque libri del Ciclo de Centro Habana. Due dei suoi romanzi hanno ottenuto riconoscimenti rilevanti: Animal tropical, il premio spagnolo “Alfonso García-Ramos – Novela 2000” e Carne de perro, il premio italiano “Narrativa sud del mondo 2003”.

Sulla vita a La Habana possiamo cogliere il suo pensiero in alcune interviste che ha rilasciato nel corso di questi anni, che vi riassumo in queste righe: mi piace raccontare la realtà di La Habana, che mi sembra una città formidabile, ma ad un certo punto questo ciclo ho dovuto concluderlo perché si tratta di libri eccessivamente autobiografici e molto dolorosi da scrivere. Il meticciato cubano afro-spagnolo ci aiuta a sopportare la vita in un modo meraviglioso; la sessualità, il rum e la rumba in tutti i posti e a qualunque ora: tutto ciò aiuta a vivere nonostante le difficoltà economiche di questo paese. Ho inviato esemplari dei miei libri editati in Spagna alla Biblioteca Nazionale di Cuba, sebbene non siano stati inseriti nel catalogo. Nonostante tutto non ho mai pensato di lasciare l’isola, sono consapevole che non potrei vivere in nessun altro posto al mondo.

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Divino Carybé

Carybé (1911-1997) è il nome artistico di Hector Julio Paride Bernabó, pittore figurativo di origine argentina, italiano di formazione, ma naturalizzato brasiliano, alto, magro, sempre elegante. Nel 1938 conobbe Bahia e dal 1950 iniziò a risiedervi stabilmente.  Ricevette il soprannome di Carybé, un pesce di acqua dolce, quando faceva il boyscout.  Le sue opere, pitture, disegni e sculture, sono tutte incentrate sulla famosa “baianidade”, e rappresentano scene quotidiane, popolari e folklore. Ispirato dalla cultura afrobrasiliana, all’inizio degli anni ’70 iniziò a concentrarsi sui rituali del Candomblé e sugli Orixàs. Era un frequentatore assiduo dei “terreiros” baiani, sebbene dicesse di non credere alla vita dopo la morte, e, incredibilmente, morì nel terreiro Ilê Axé Opô Afonjá, a causa di un infarto. Era obá de Xangô, ovvero aveva un posto d’onore nel rituale.  Tra i sui capolavori si annoverano murales oggi ancora visibili a São Paulo, Rio de Janeiro, Bahia, Montreal, Buenos Aires, Miami e New York. In totale la sua opera conta circa 5000 lavori, tra cui le illustrazioni dei libri di Jorge Amado e di Cent’anni di solitudine di Marquez. La moglie racconta che Carybé non faceva mai schizzi durante i riti, ne aveva troppo rispetto: riusciva a mantenere una straordinaria memoria visiva di ciò cui aveva assistito e poi lo riproduceva usando solo i suoi ricordi. Una singolare parte dell’opera dell’artista, commissionata in origine dall’antico Banco da Bahia, si trova al Pelourinho, nel Museu Afro-Brasileiro di Salvador. Si tratta di 27 pannelli in legno di cedro che rappresentano ognuno un Orixás del Candomblé di Bahia, con le proprie armi e animali liturgici. Davanti agli enormi Orixás di cedro, finalmente dopo tanti anni, anche io ho sentito il “Divino”, la sua furia e la sua benevolenza. Le opere di Carybé a mio avviso trasmettono qualcosa di unico: fiducia e ammirazione verso il genere umano,  rispetto per le cose semplici e ammirazione per la divinità, la forza ed i colori della vita che scorre semplicemente. 

 

 

 

Brie con gusto: il Teatro de los Andes

Il Teatro de los Andes nasce in Bolivia nell’Agosto de 1991, su impulso dell’attore Cesar Brie. Si trova a Yotala, vicino Sucre, ed è un teatro-fattoria dove si preparano e presentano spettacoli, si ospitano artisti, si realizzano incontri e laboratori. L’obiettivo di questa esperienza è formare un attore nel senso etimologico del termine: che fa, che crea. Per questo gli attori si sottopongono ad un allenamento quotidiano dal punto di vista fisico e vocale e lavorano su forme di improvvisazione e composizione a “tornare in sé”. Lo stile è improntato sulla relazione con il pubblico che determina l’uscita del teatro dai teatri per portarlo dove si trova la gente: università, piazze, quartieri, villaggi, luoghi di lavoro, comunità: “Cercare un nuovo pubblico per il teatro e creare un nuovo teatro per questo pubblico. Il teatro è il luogo per eccellenza dove si conosce ‘l’altro’. Noi facciamo un teatro molto legato ai sentimenti del pubblico, non commerciale, che si propone al pubblico come testimone”. Sono 19 anni che ci stanno riuscendo e, ancora oggi, sono in grado lanciare alla gente messaggi importanti: la contaminazione di razze, culture, usi, le migrazioni, crearono sempre nuove forme espressive; si sono perse cose antiche, ma ciò che è sorto dall’incontro e dal miscuglio è una nuova modalità attraverso cui l’uomo di oggi si esprime, figlio della sua condizione, con la memoria aperta a ciò che è stato e la mente proiettata in avanti. Quest’uomo è il soggetto-oggetto di questo teatro.

 Cesar Brie è un giramondo, un po’ per scelta professionale un po’ a causa dell’esilio forzato. Una di quelle persone che dice di essere grata all’esilio perché, sebbene sia stato molto duro, gli ha permesso di conoscere il mondo e le persone, cosa fondamentale per il suo lavoro. Dedica molto del suo tempo alla formazione di altri attori, con altre estetiche perché per lui “Il problema più grande non è formare gente che la pensa come te. Il vero problema è formare persone che abbiano le loro vedute. Gli allievi devono ‘tradire’ i maestri. Questa è l’unica forma di rispetto possibile.” No c’è dubbio che sia un grande maestro! Del suo lavoro teatrale dice: “Spero che vedendo una mia opera lo spettatore veda qualcosa di sé che lo inquieti. Io vorrei divertire e commuovere il pubblico. Vorrei riuscire a non far dormire sonni tranquilli alle persone che assistono a questi spettacoli. Vorrei che riconoscessero se stessi nelle emozioni che hanno vissuto durante la messa in scena.” Spesso Cesar Brie fa tappa in Italia, la sua “terza patria”, vale la pena non perderselo.

La Casa delle Americhe (del Centro-Sud)

Oggi vorrei fare un elogio alla migliore e più importante istituzione culturale latinoamericana: Casa de las Américas, fondata nel 1959 da Haydee Santamaría, eroina della lotta rivoluzionaria cubana che ne fu presidentessa fino al 1980.

A soli quattro mesi dalla vittoria della Rivoluzione cubana, con legge 299 del 28 aprile 1959 il Governo Rivoluzionario istituì Casa de Las Américas con il compito di divulgare, ricercare, promuovere, premiare e pubblicare le opere di scrittori, artisti plastici, musicisti, attori e studiosi di letteratura e arti, ma la Casa ha anche lo scopo, non secondario, di sviluppare e ampliare le relazioni socioculturali con i popoli dell’America Latina, i Caraibi e il resto del mondo ed è concepita come uno spazio di incontro e dialogo da diverse prospettive artistiche.

La necessità di pubblicare le opere vincitrici del Premio Literario Casa de las Américas motivò la creazione della Casa Editrice interna nel 1960. In seguito le pubblicazioni si ampliarono verso la promozione della letteratura più importante e rappresentativa dell’ America Latina e dei Caraibi. Il nome attuale, Fondo Editorial Casa de las Américas, compare nel 1997. Al momento conta un totale di diciassette collezioni e circa novecento titoli pubblicati.

La sede è un palazzo tra il Malecòn e il Vedado, a La Habana, che ospita: Centro de Investigaciones Literarias, Teatro, galleria di Arti Plastiche, Biblioteca, Centro de Estudios del Caribe, redazione della Revista Casa de las Américas, Casa editrice e promuove numerosi Premi.  Per me è la cosa più importante da vedere a La Habana assieme all’ICAIC (l’istituto di cinematografia).