Eldorado: prodromi e spedizioni

bracciaoroL’oro. Elemento che nella modernità è divenuto una delle maggiori ossessioni dell’essere umano: oggetto di culto, adorazione, bene economico, elemento ornamentale, simbolo di potere. Durante il corso dei secoli una strana mistica mantiene uno stretto ed intimo legame tra questo metallo e l’uomo, che progressivamente ha sviluppato un’avidità autodistruttiva ai limiti dell’inverosimile.

Ma quando questo amore per l’accumulo si trasforma in ossessione per l’umanità? Forse proprio con le possibilità innescate dalla scoperta del nuovo mondo. I “conquistadores” erano anch’essi emigranti in cerca di fortuna. Spesso provenivano dalla piccola nobiltà spagnola decaduta in seguito alla crisi dell’agricoltura, ovvero erano Hidalgos come quel famoso cavaliere della Mancha che si era rifugiato nei romanzi cavallereschi. I loro sogni di gloria e di rivalsa per uscire da una condizione di povertà inaccettabile e vergognosa venivano alimentati dai racconti dei naviganti che tornavano carichi di ricchezze, così in tantissimi misero insieme i loro pochi averi e partirono con un solo obiettivo: erano i protozii d’America. Quelli che volevano tornare carichi e opulenti per far morire d’invidia i paesani che li avevano sottoposti ad umiliazioni inaccettabili e non avevano paura di soffrire patimenti ignoti pur di raggiungere il loro scopo.

A quanto pare Cristoforo Colombo una volta disse:” Con l’oro chiunque può fare in modo che la propria anima entri in Paradiso”. Con questa ossessione impiantata come un cancro nella mentalità europea del XVI secolo, l’America si vide invasa da conquistatori senza scrupoli in cerca prima di tutto ed a qualsiasi costo di oro. In questo contesto nacque il mito di El Dorado, una sfavillante città o regno d’oro che sorgeva in mezzo alla giungla, in linea di massima nella zona centrale della Nueva Granada, attuale territorio colombiano, sebbene a seconda dell’origine e dell’epoca della versione, poteva essere localizzata anche nell’interno del Venenzuela, nella selva amazzonica o in qualche parte delle Ande, poteva assumere nomi diversi ma comunque non differivano molto nella sostanza. La febbrile immaginazione degli esasperati conquistadores, li condusse a vedere nei propri deliri una città che brillava di strade ed edifici d’oro, in cui esso era così abbondante che in pratica tutto vi si costruiva e confezionava.

Nelle varie “crónicas de indias” che sono arrivate fino ai nostri giorni, non c’è modo di determinare con sicurezza in che momento, luogo o circostanza nacque il mito del Dorado, sebbene esistano varie teorie a riguardo. E’ possibile che fin dall’arrivo dei primi conquistatori abbia iniziato a prendere piede la leggenda, dal momento che i primi abitanti che presero contatto con Colombo parlavano di alcuni luoghi remoti in cui abbondava l’oro in quantità smisurate, cosa che fomentava l’immaginazione degli europei; questa narrazione si susseguì costantemente in ogni luogo in cui venivano interrogati gli indigeni riguardo all’origine del metallo con cui si adornavano. Spesso ciò era il risultato della disperazione delle popolazioni che, vedendo minacciato il proprio mondo e la propria vita, inventavano storie su posti lontani pieni d’oro, al fine di allontanare gli invasori. Sfortunatamente questo non accadde praticamente mai. A causa di questa voce che si rincorreva insistente, Colombo cominciò a credere di poter incontrare luoghi traboccanti d’oro e già nel 1514 Vasco Núñez de Balboa, scopritore del Mare del Sud ovvero del Pacifico, partì da Panama in direzione dell’attuale Colombia inoltrandosi nella giungla alla ricerca della città d’oro.

Edizioni 001

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La 001 edizioni è una piccola casa editrice torinese nata nel 2006 che vanta al suo interno la collana H! Historietas il meglio della produzione sudamericana del passato e di oggi.

Ha sfornato l’anno scorso una ricca e curatissima edizione dell’Eternauta in lingua italiana, con introduzione di Goffredo Fofi e numerosi approfondimenti, poi un saggio dal titolo Memorie dell’Eternauta. Storia di un fumetto desaparecido di Fernando Ariel Garcìa e Hernan Ostuni.

Nel mese di dicembre è uscito L’Eternauta. Il ritorno. L’investimento vale la pena in ogni senso: contenuto attualissimo, splendida grafica vintage, autentico piacere fisico che scaturisce dal toccare ed odorare questi volumi fatti ad arte.

Eccentrica scoperta

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 Un po’ in sordina una casa editrice salernitana sta proponendo traduzioni insperate di validi autori latinoamericani da noi poco noti. Si tratta delle Edizioni Arcoiris con la collana Gli eccentrici, presentata recentemente nella bibliolibreria della Fiera Più Libri Più Liberi a Roma.

Segnalo un titolo che mi è parso molto avvincente dalla presentazione: il romanzo breve o racconto lungo Istantanee d’inquietudine di Norberto Luis Romero.

Intendo invece soffermarmi sull’affascinante operazione effettuata con l’Antologia Bagliori estremi. Microfinzioni argentine contemporanee curata da Anna Boccuti, ricercatrice all’università di Torino. Il libro offre una panoramica su un genere letterario che in Argentina sta avendo particolare seguito: la microfinzione – miniracconto, microracconto o come lo si vuole chiamare – è un racconto brevissimo, che in poche righe mescola o condensa sentenze, prosa poetica, aforismi, narrativa ed altro ancora e che si chiude in molti casi con un finale che lascia disorientato e impressionato il lettore. Molte le eredità ricevute dal genere, al punto che non lo si può dichiarare totalmente nuovo, ma le comunicazioni brevi tipiche dei social network e del web hanno dato impulso a quello che era sempre rimasto un esperimento più o meno isolato di alcuni autori, noti per essersi cimentati con altri tipi di scritture. Le microfinzioni dialogano spesso e volentieri con altri testi, un rimando intertestuale, una risposta che scaturisce dall’esigenza di brevità e genera un ampliamento dei significati del testo. Si può giocare a scovare i rimandi nella sezione dell’antologia intitolata Alla ricerca delle sorgenti.

Questi brevi scritti hanno frequentemente l’ambizione di portare per pochi momenti chi legge in mondi lontani o surreali; spesso leggendo ho avuto la sensazione di trovarmi davanti paesaggi tipici di certi quadri di Dalì e De Chirico, spazi ampi, rarefatti e bizzarri intrisi di contenuti e rimandi filosofici. Mi riferisco alla sezione intitolata Città, labirinti e altre geografie ad esempio, oppure a Linee di Maria Rosa Lojo o a Ciò che permane di Rosalba Campra.

Si respirano in altri punti tempi mitici in cui personaggi del passato remoto agiscono al di la del clichè, rivelando nuovi finali di storie note a tutti, è il caso di Questione di nomi di David Lagmanovich o di Divine metamorfosi di Patricia Calvelo; in altri ancora i protagonisti dei mondi di fiaba appaiono diversi da come impone la tradizione, si veda Tango del lupo di Eugenio Mandrini, oppure vi è uno spostamento spaziale ed una appropriazione entro i confini geografici latinoamericani di storie fondative dell’Europa, come in Immigrazione di Mario Goloboff, o ancora evocazioni del mondo del circo come metafora della natura umana.

Riscrittura, soggetti abbozzati per un racconto o per un film, piccole riflessioni rinchiuse in un diario segreto, esternazione di punti di vista, piccoli sfoghi, versi poetici, confessioni, questo è quello che appaiono di volta in volta queste opere. Testi aperti e incompiuti per principio, che hanno l’ardire di creare sensi inediti ed incuriosire il lettore; lo lasciano sospeso dentro una suggestione che dura poche righe per poi liberarlo ed abbandonarlo nel proprio labirinto mentale. Come avrete capito questo libro mi appare seducente e pericoloso come un libro di incantesimi: non si sa mai a quali esiti possa portare una di queste piccole microfinzioni, una diversa per ognuno e diverso l’effetto su ogni lettore.

Cimarronaje: Giorno di trecce

Ha fatto grande scalpore qualche mese fa a Panama la denuncia di Hilda  García, madre di quattro figlie, a cui la Preside ha comunicato che una delle figlie non poteva andare a scuola con le treccine. Grazie a ciò si è imposto il tema del divieto alle afrodiscendenti di portare pettinature simili nei centri scolastici di Panama, un tema non nuovo nel piccolo Stato centroamericano. Alla fine ne è nata una campagna per ufficializzare un “Día de las Trenzas” e rivendicare l’identità degli afrodiscendenti contrastando così la dicotomia “pelo bueno” vs “pelo malo” ed il sottile razzismo che ciò implica. Questo festeggiamento ha portato alla luce la castrazione culturale patita in silenzio da molte donne. Il ministro dell’educazione di Panama Lucy Molinar, anche lei afrodiscendente, non ha preso posizione netta a favore delle treccine, ma si è limitata a dichiarare che le treccine non sono proibite nelle scuole statali, besì i capelli posticci e le parrucche colorate, lei è comunque apparsa con i capelli perfettamente lisciati.

La questione da qui sembra di poco conto ma presenta invece molte implicazioni identitarie e culturali, secondo quanto ha recentemente scoperto la sociologa colombiana Lina Vargas.

Queste pettinature secondo molte donne rappresentano il cammino di libertà che intrecciavano le schiave sulle teste delle loro figlie e delle loro compagne. Da esse uscivano mappe del paesaggio circostante e vie di fuga; sulle teste si riproduceva il paesaggio, i fiumi, le montagne e le truppe dell’esercito spagnolo in modo che gli schiavi potessero fuggire consultando le pettinature, i padroni mai sono arrivati a pensare che le schiave li ingannassero in modo così semplice sotto i loro occhi. Inoltre i capelli servirono anche da bottino: semi di mais ed ortaggi per sopravviviere una volta fuggiti e pepite d’oro che gli schiavi trovavano nelle miniere e riuscivano ad occultare.

A San Basilio de Palenque, in Colombia, sono stati catalogati più di 60 tipi di pettinature tradizionali che ricreano paesaggi circostanti o attrezzi da portare in caso di fuga, stato del terreno ed eventi significativi. Non a caso questo piccolo villaggio è stato dichiarato dall’Unesco Opera maestra del patrimonio orale e immateriale dell’umanità, essendo l’unico Palenque che ancora sopravvive a quattro secoli dalla sua fondazione da parte degli schiavi africani che si ribellarono contro gli spagnoli.

La testa ed i capelli per gli afrodiscendenti sono tavole su cui si scrive l’identità anche individuale: la testa come scenario implica il riconoscimento dell’arrivo ad età significative: il primo anno dei bambini o i quidici delle ragazze sono spesso motivo di cambiamenti estetici che richiamano l’attenzione della comunità e la fanno partecipe di queste transizioni del singolo. I maschi adolescenti possono trasformare il proprio look una volta usciti dall’influenza diretta dei loro genitori, finiti gli anni della scuola, ma mentre per le donne le pettinature si creano in pubblico, magari di fronte all’uscio di casa nei centri rurali, per gli uomini il cambiamento presuppone di norma un rituale più intimo.

Anche nelle grandi città come Bogotà i negozi di parrucchieri sono il fulcro di varie culture afrocolombiane: nel contesto contemporaneo trecce, curly, dreadlooks e pettinature ispirate dai rapper di moda sono una forma di resistenza alla cultura egemonica dei bianchi, si tratta di individuiinseriti in una globalizzazione generalizzata che in questo modo manifestano la propria dissidenza. Poi ci sono le pettinature tradizionali di cui abbiamo parlato sopra, che contengono i significati di libertà e fuga già esplorati. I saloni, chiamati spregiativamente dai bianchi “posti dei neri”, sono luoghi di aggregazione e socializzazione importantissimi: prova ne sia che anche i politici vi si recano per le loro campagne elettorali. L’arte di saper intrecciare i capelli è uno dei ruoli culturali della donna, che assieme ai capelli intreccia le storie della sua famiglia e della comunità, un rituale collettivo esercitato magari in chiassose riunioni casalinghe del fine settimana.

Chi è Stato?

Pochi giorni fa la Casetta Rossa della Garbatella a Roma ha ospitato una singolare presentazione del libro di Emilio Barbarani dal titolo Chi ha ucciso Lumi Videla? Con la partecipazione, intensa e cordiale di Erri De Luca. E’ stato un incontro denso, doloroso e piacevole allo stesso tempo, in cui abbiamo potuto riflettere con una giusta distanza e con maggiore lucidità sugli anni in cui il mondo era diviso in due, ma, oltre ad essere diviso fra est ed ovest era anche in gioco fra testa e croce, capitalismo e socialismo reale, piatto come una moneta. In questo quadro qualsiasi angolo remoto poteva diventare strategico… così si è espresso Erri De Luca per introdurre il tema del libro, un fatto meno noto di quello di Enrico Calamai presso l’Ambasciata italiana di Buenos Aires, ma altrettanto importante.

Il luogo in cui si svolgono i fatti di questa autobiografia scritta come un romanzo è l’Ambasciata italiana di Santiago del Cile. Un giovane Barbarani, funzionario del Consolato generale d’Italia a Buenos Aires, viene trasferito d’urgenza all’Ambasciata a Santiago del Cile in cui risiede un unico Diplomatico: l’ambasciatore Tomaso de Vergottini, non accreditato, assistito dal personale dipendente, la cui metà non parla e non collabora con l’altra metà per motivi politici: “pinochetisti” contro “antipinochetisti”. Com’è noto, in quel momento per cercare di salvarsi la vita migliaia di persone affollano le ambasciate estere. Poi, progressivamente i golpisti consolidano il loro potere e le ambasciate cominciano a non accoglierli, tutte tranne quella italiana. L’Italia non ha mai riconosciuto il governo capeggiato da Augusto Pinochet, quindi i diplomatici non potevano essere accreditati, l’ambasciata risulta addirittura chiusa, nonostante ciò fino al 1975 continuerà ad accogliere i richiedenti asilo.

Nella notte tra il 4 e il 5 novembre 1974, il corpo di una donna di 24 anni viene scaricato nel giardino della villa di Miguel Claro, in cui sono già rifugiate centinaia di persone in fuga dal regime. Sono trascorsi circa 14 mesi dal Golpe militare di Pinochet. La donna viene riconosciuta: è il corpo senza vita di Lumi Videla, dirigente del Mir. Pochi giorni dopo i giornali come El Mercurio si affrettano ad aderire alla versione ufficiale che dell’accaduto danno i militari: durante un’orgia a cui partecipavano i richiedenti asilo all’interno dell’Ambasciata, Lumi è stata portata alla morte. Una tesi sfatata subito dall’assenza della stessa dalle liste dei richiedenti asilo.

In un clima inquietante fatto di spie, armi, amori e delatori continua il racconto di Barbarani, che curiosamente non ha avuto grande eco in Cile, qualcuno dice perché un tal colonnello “K” non ha mai ricevuto condanne e vive indisturbato a Santiago. Tuttora. Come nulla fosse…

A Cannes si dice NO

Inaspettato successo del film No del chileno Pablo Larrain, quello di Tony Manero e Postmortem. Tutti dicono che è stato uno dei capolavori del festival di Cannes di quest’anno, forse il migliore però ha vinto solo (si fa per dire) la sezione Quinzaine des Réalisateurs, che assicura un’ottima distribuzione al film. Gael Garcìa Bernal interpreta un pubblicitario che con una campagna mirata e ben confezionata riesce a rovesciare il regime di Pinochet in occasione del referendum del 1988, in cui alla fine il dittatore perse la possibilità di  restare in carica fino al 1997.

La sceneggiatura è firmata da Pedro Peirano ed il film è interamente girato con videocamere Ikegami del 1983 per rendere l’estetica delle immagini originali di quegli anni. Il regista intervistato sul successo riscosso dal film dichiara che
probabilmente è anche merito della particolare fase politica che buona parte del mondo  sta attraversando: magari non contro una dittatura, ma le proteste spagnole, arabe, chilene sono comunque una forma collettiva di associazione ed espressione per produrre cambiamenti  rilevanti nella società.
Il festival ha ospitato diversi film latinoamericani: l’uruguaiano Pablo Stoll con la commedia  familiare “3”, la messicana Yulene Olaizola con “Fogo” e il colombiano William Vega con “La sirga”,  sulle vittime di violenza nelle zone rurali in Colombia. Poi “Infancia clandestina” dell’argentino  Benjamín Avila, e “La noche de enfrente” del regista franco-chileno Raúl Ruiz, morto nel 2011.

Mostra virtuale: i libri di Cortàzar

Inaugurata una piccola ma stuzzicante mostra virtuale dall’Istituto Cervantes. Si tratta della biblioteca privata di Julio Cortàzar, quattromila volumi della casa di Rue Martel che la vedova Aurora Bernàrdez ha donato alla Fondazione Juan March. Il progetto della mostra è stato curato da Jesùs Marchamalo, che domani si intratterrà in una “tertulia” con Gianrico Carofiglio nella Galleria Cervantes di Piazza Navona a Roma. Sono presenti le varie edizioni dei libri dell’autore in diverse lingue ed una serie curiosa di libri rari, d’arte ed edizioni antiche. I libri risultano molto spesso annotati dall’autore: dediche, puntigliose osservazioni, ironiche correzioni ad errori di stampa che rivelano il carattere ironico e meticoloso del grande scrittore. Ma a mio avviso la parte più interessante è la ricostruzione della storia di una strana edizione illustrata che non fu mai distribuita e per diverso tempo è stata ritenuta perduta: El tango de la vuelta.

 

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La terra e l’arte: Vik Muniz

Nel 2003 mitrovo ad assistere all’inaugurazione del MACRO nei pressi di Porta Pia, finalmente un Museo d’arte contemporanea nella città di Roma. Fra i vari artisti che espongono mi colpisce subito e solo Vik Muniz. Disegni incredibili realizzati con la marmellata che sembrano acquerelli, piccoli schizzi dall’inusitata perfezione formale con tratti segnati da fili di lana ed infine grandi ritratti particolareggiatissimi composti interamente da coriandoli di carta di riviste e giornali. In quel momento il riuso ed il riciclo non erano ancora granché di moda da noi, si trattava di un’operazione artistica assolutamente originale e strepitosamente sofisticata. Dato il nome, ho subito tratto facili conclusioni: un artista tedesco, vista anche la sua cultura di provenienza molto più attenta all’ambiente rispetto alla nostra, ha realizzato questi capolavori. Invece leggendo la biografia dell’artista scopro con sorpresa una realtà totalmente diversa: i pregiudizi ed i luoghi comuni… Vik sta per Vicente José de Oliveira Muniz, brasiliano di San Paolo classe ’61 che dopo aver ricevuto un risarcimento per una pallottola che lo ha colpito “accidentalmente” si è trasferito a New York ed ha aperto uno studio a Brooklin. Ora Vik ha appena concluso una mostra presso l’Ambasciata brasiliana di Piazza Navona, ma è il documentario incentrato sulla sua ultima operazione socio-culturale che lo sta portando definitivamente alla ribalta: Waste Land, un film di Lucy Walker, Karen Harley e João Jardim.

Ai confini di Rio de Janeiro, con il passare del tempo e la mancanza di controllo del territorio da parte delle autorità, ora si trova la più grande discarica del mondo che quotidianamente consente la sopravvivenza di migliaia di persone, i cosiddetti catadores, ovvero riciclatori: incessantemente persone di ogni età senza un posto nella società si aggirano tra gli enormi cumuli di rifiuti alla ricerca di qualsiasi cosa sia riciclabile cioè vendibile o barattabile per la propria sopravvivenza. Vik torna in Brasile per vivere un po’ di tempo a Jardim Gramacho, un luogo in cui il 50% della popolazione vive di riciclaggio, con l’obiettivo di creare un’opera d’arte con i rifiuti. Man mano il progetto iniziale si trasforma e coinvolge gli stessi catadores. La regista inglese Lucy Walker si incarica delle riprese che testimoniano la crescita e l’evoluzione di questo gruppo, che ha realizzato un’opera d’arte dalla spazzatura raccolta.  La spazzatura si è trasformata in immagini strepitose, che a loro volta sono state fotografate e trasformate in iconografie giganti composte dai materiali riciclabili. I catadores hanno avuto un’opportunità di riscatto dalla propria miseria ed il film, costato comunque moltissimo a causa dei quattro anni di lavorazione, è stato candidato agli Oscar 2011 come miglior documentario. “Volevo cambiare la mentalità delle persone a partire dalle cose che loro usano nel quotidiano: e la prima cosa sono i rifiuti. C’è talmente tanto eccesso, qui, da diventare arte”, dice ad un certo punto Muniz nel film. L’ultima notizia è che grazie a questa operazione l’artista devolverà duecentocinquantamila dollari ad un’associazione che difende i diritti dei catadores della discarica di Jardim Gramacho, che serviranno per la creazione di un vero centro di riciclaggio al posto della discarica. Un prova che l’arte ha una sua ragion d’essere: può effettivamente migliorare la realtà.

Messico da favola

Il libro Frida e Diego. una favola messicana di Fabian Negrin sullo scaffale risalta subito all’occhio: formato grande, colori sgargianti, tratti marcati… quello che non ci si aspetta è la piega che prende la storia. Frida Kahlo e Diego Rivera bambini si avventurano insieme nel paese degli scheletri, dopo aver litigato a causa dell’abbraccio di Diego a Rosa Spinosa, i loro caratteri ed il temperamento si distinguono già da questi fantasiosi dialoghi infantili. Un modo divertente per introdurre ai bambini dai 4 anni in su l’arte e la vita di questi due importanti artisti messicani. 

Fabian Negrin è nato in Argentina, si è laureato in Messico e vive in Italia. Ha illustrato e scritto molte storie interessanti per bambini, ma non solo, collabora frequentemente con la casa editrice Orecchioacerbo.

Memorie di un’infamia

Donna e giornalista: in Messico significa per lo meno partire svantaggiata…Lydia Cacho nasce a Città del Messico nel 1963, ed oltretutto è femminista ed attivista per i diritti umani. Insomma rischia la vita da un po’. In particolare dal 2005, anno in cui pubblica Lo demonios del Eden, raccontando la storia di Jean Succar Kuri, noto imprenditore proprietario di alberghi accusato di far parte di un giro di pedopornografia e prostituzione minorile insieme a importanti personaggi politici e uomini dai torbidi affari. Vero e proprio giornalismo d’inchiesta in trincea, come da noi non si usa quasi più: Lydia viene citata per diffamazione e arrestata illegalmente da un gruppo di poliziotti, ricordo che quelli messicani sono considerati i più corrotti del mondo, picchiata e rinchiusa nel carcere di Puebla. Il suo ultimo libro, appena pubblicato in Italia da Fandango si intitola Memorie di un’infamia e narra di quanto ha vissuto in prima persona in quel periodo, in un paese in cui i giornalisti sono presi di mira, minacciati ed assassinati a decine ogni anno. Nonostante i consigli dello United Nations Human Rights Council, la Cacho non si è allontanata dal Messico. Vive sotto scorta e continua ad investigare e denunciare.  Martedi 13 dicembre alle ore 18.30 presso lo spazio espositivo di piazza Navona avremo l’opportunità di poterla conoscere grazie alle iniziative dell’Istituto Cervantes di Roma correlate alla mostra Testigos del olvido. In quell’occasione Lydia Cacho presenterà il suo libro  uscito in lingua spagnola nel 2008.

Un’intervista

Altre informazioni

Origine del tabacco

Horonami girava per la selva piagnucolando: Beshiye! Piango di desiderio. Gli spiriti pappagallo lo sentirono e cercarono di aiutarlo: Ledonne sono appena passate. Erano dirette verso la collina. Se corri riuscirai a raggiungerle. Ma Horonami pianse ancora più forte, urlando che il suo non era desiderio di donne. Allora gli spiriti pappagallo gli lanciarono qualche frutto perchè si sffamasse. Ma dal basso continuava il lamento. Horonami camminò a lungo, sempre invocando l’aiuto dei pappagalli che non riuscivano a capire. Finalmente si fermò sotto un albero: Beshiye! Beshiye! Beshiye! ripetè sconsolato. Sull’albero se ne stava un opossum che gli indicò dove trovare le donne, e poi gli offrì alcuni frutti. Ma Horonami non voleva donne, e quei frutti gli sembrarono insipidi. Ho capito di cosa hai bisogno, disse l’opossum, guarda sulla mia ascia.

In bilico sull’ascia c’era una presa di tabacco molto odoroso. Opossum gliela regalò con la raccomandazione di tenerla a lungo sotto il labbro inferiore. Horonami ubbidì e, invaso da una piacevole vertigine, smise di lamentarsi e piagnucolare. Si allontanò saltando dalla gioia. Ogni tanto sputava per terra, e in quel punto cresceva immediatamente una pianta di tabacco.*

*Racconto tratto dal libro Gli yanomami. – Milano : Maitana, 1997. – 123 p. ; 20 cm.

 

LOS DIAS MAS FELICES

Segnalo l’uscita del libro di Rodrigo Hasbún, a mio avviso uno dei più interessanti giovani talenti selezionati dalla Rivista Granta en español, purtroppo non sono ancora riuscita a procurarmelo…ma qualcuno molto più autorevole di me lo ritiene un libro importante:

« No es un buen escritor. Es uno de los grandes.»

Jonathan Safran Foer

«Rodrigo Hasbún: recuerden este nombre.»

Edmundo Paz Soldán