Oltre il corteo: l’escrache

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Sembrerebbe che il verbo “escrachar” derivi dal lunfardo, l‘escrache è citato già nel 1879 come una truffa legata ad un falso biglietto vincente della lotteria, oppure potrebbe provenire dal dialetto genovese o infine dall’inglese to scrach, grattare.

A metà degli anni ’90 l’associazione dei figli dei desaparecidos HIJOS utilizza il sostantivo “escrache” per dare nome alla propria forma di lotta, nel periodo in cui i condannati del Proceso de Reorganización Nacional avevano goduto dell’indulto concesso da Carlos Menem. Si tratta in sintesi di manifestazioni organizzate presso i luoghi di residenza dei militari colpevoli di genocidio: mediante slogan, canti, musica, rappresentazioni teatrali, la comunità del quartiere viene avvisata che al suo interno vive un feroce assassino.

Fino a quel momento i figli dei desaparecidos avevano portato in silenzio, accompagnati da paure e vergogna la propria condizione, da allora invece decisero di esprimerla pubblicamente accettando e rivendicando un’identità sia individuale che di gruppo. Prima di questo evento HIJOS aveva creato una Comisión de hermanos che aveva l’obiettivo di recuperare l’identità dei cinquecento bambini e bambine sequestrati dai militari. Tra loro si cominciarono a considerare fratelli, in quanto figli di una generazione che aveva cercato di lottare per un mondo migliore e per questo era stata annientata. HIJOS si definisce come una “costruzione affettiva e politica”, così come le Madres de Plaza de Mayo, la loro è una comunità completamente intrisa della dimensione affettiva e questo ne marca le differenze con qualsiasi altra comunità che lotta per una causa motivata da interessi comuni.

Nel ’96 cambia il clima all’interno della società argentina e ciò provoca un profondo mutamento nel modo di pensare di molti settori sociali. Un anno prima infatti il capitano Adolfo Scilingo aveva reso le sue scabrose dichiarazioni alla stampa. Era la prima volta che si veniva a sapere per bocca di un boia ciò che fino ad allora proveniva solo dalle testimonianze delle vittime. Dopo Scilingo nessuna persona in buona fede poteva ammettere che non fosse stato commesso un genocidio durante la dittatura. Inoltre i gruppi di ragazzi confluiti in HIJOS avevano portato avanti un lavoro di analisi individuale e collettivo assieme a gruppi di psicologi in diverse aree del paese.

Dopo i primi tentativi che consistevano in rapidi flash mob a cui partecipavano un gruppo sparuto di attivisti leggendo un comunicato e tirando vernice sulla porta di casa dell’escrachado, efficaci dal punto di vista mediatico ma poco amalgamati con il tessuto sociale del vicinato, si comprende molto velocemente che l’escrache è efficace e duraturo solo se lavora per ottenere consenso nel quartiere. “Che il carcere siano i vicini” dice la Mesa de escrache popular. Si parla con i vicini, si fa volantinaggio, poiché l’obiettivo non è più la richiesta di un processo allo Stato, ma la costruzione comunitaria della condanna sociale. Così l’escrache assume la forma di una festa creativa che cerca di superare l’impotenza, diventando a sua volta un generatore di potenza che attiva la comunità. HIJOS vuole che l’escrache non abbia un proprietario bensì che la gente stessa se ne impossessi perché “tutti siamo figli della stessa storia”. Nell’escrache i tempi della protesta si intrecciano a quelli del carnevale e del teatro al fine di ricreare il tessuto sociale e risvegliare il senso di comunità annientati dalla dittatura. Sorge un nuovo modo di fare politica, accompagnato da una nuova forma estetica che rompe definitivamente con la protesta tradizionale del corteo. Una nuova visione politica che non è focalizzata sull’annichilimento dell’avversario, ma sull’espulsione dei criminali, non chiede ma denuncia mettendo in scena un atto liberatorio e catartico che di per se stesso riconfigura simbolicamente gli equilibri senza aspettarsi più un intervento  super partes. Questa organizzazione non separa dunque gli obiettivi dai metodi di lotta. L’unità fra quello che fanno e quello che sono elimina la divisione tra fini e mezzi e tra soggetti e forme di lotta.  In America Latina i gruppi come Madres, HIJOS, le comunità indigene, i sem terra, le organizzazioni cristiane di base sono caratterizzati dall’autoaffermazione, dal rendere visibili alla società nuovi soggetti e si trovano a lavorare per separare gli aspetti oppressivi della cultura popolare da quelli emancipativi. Sono gruppi comunità in cui le persone non sono mezzi ma scopi, pertanto il carattere etico resta fondamentale. Il gruppo di Madres occupa da decine di anni uno spazio pubblico in maniera permanente, la Plaza de Mayo, e se ne appropria anche in maniera simbolica: le ceneri di molte madres sono state disperse su quella piazza per loro volontà. Il ruolo giocato dall’aspetto affettivo permette loro di andare oltre ciò che è strumentale e trovare una sintesi senza separare il personale dal politico, il dolore viene trasformato in argomento. E’ probabilmente grazie alla tenacia di questi gruppi che si sono formati per necessità e per affetto, che la mobilitazione sociale in argentina ha assunto una ricchezza ed una grande partecipazione nelle forme di lotta ed è diventata un modello a cui guardare per i movimenti che in tutto il mondo si sono formati in seguito alla crisi del 2008. Per ulteriori approfondimenti è opportuno e doveroso il rimando a Raùl Zibechi, a cui devo molte delle informazioni presenti in questo post, ed in particolare al libro uscito nel 2003 anche in italiano dal titolo Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento (casa editrice Luca Sossella).

 

Chi è Stato?

Pochi giorni fa la Casetta Rossa della Garbatella a Roma ha ospitato una singolare presentazione del libro di Emilio Barbarani dal titolo Chi ha ucciso Lumi Videla? Con la partecipazione, intensa e cordiale di Erri De Luca. E’ stato un incontro denso, doloroso e piacevole allo stesso tempo, in cui abbiamo potuto riflettere con una giusta distanza e con maggiore lucidità sugli anni in cui il mondo era diviso in due, ma, oltre ad essere diviso fra est ed ovest era anche in gioco fra testa e croce, capitalismo e socialismo reale, piatto come una moneta. In questo quadro qualsiasi angolo remoto poteva diventare strategico… così si è espresso Erri De Luca per introdurre il tema del libro, un fatto meno noto di quello di Enrico Calamai presso l’Ambasciata italiana di Buenos Aires, ma altrettanto importante.

Il luogo in cui si svolgono i fatti di questa autobiografia scritta come un romanzo è l’Ambasciata italiana di Santiago del Cile. Un giovane Barbarani, funzionario del Consolato generale d’Italia a Buenos Aires, viene trasferito d’urgenza all’Ambasciata a Santiago del Cile in cui risiede un unico Diplomatico: l’ambasciatore Tomaso de Vergottini, non accreditato, assistito dal personale dipendente, la cui metà non parla e non collabora con l’altra metà per motivi politici: “pinochetisti” contro “antipinochetisti”. Com’è noto, in quel momento per cercare di salvarsi la vita migliaia di persone affollano le ambasciate estere. Poi, progressivamente i golpisti consolidano il loro potere e le ambasciate cominciano a non accoglierli, tutte tranne quella italiana. L’Italia non ha mai riconosciuto il governo capeggiato da Augusto Pinochet, quindi i diplomatici non potevano essere accreditati, l’ambasciata risulta addirittura chiusa, nonostante ciò fino al 1975 continuerà ad accogliere i richiedenti asilo.

Nella notte tra il 4 e il 5 novembre 1974, il corpo di una donna di 24 anni viene scaricato nel giardino della villa di Miguel Claro, in cui sono già rifugiate centinaia di persone in fuga dal regime. Sono trascorsi circa 14 mesi dal Golpe militare di Pinochet. La donna viene riconosciuta: è il corpo senza vita di Lumi Videla, dirigente del Mir. Pochi giorni dopo i giornali come El Mercurio si affrettano ad aderire alla versione ufficiale che dell’accaduto danno i militari: durante un’orgia a cui partecipavano i richiedenti asilo all’interno dell’Ambasciata, Lumi è stata portata alla morte. Una tesi sfatata subito dall’assenza della stessa dalle liste dei richiedenti asilo.

In un clima inquietante fatto di spie, armi, amori e delatori continua il racconto di Barbarani, che curiosamente non ha avuto grande eco in Cile, qualcuno dice perché un tal colonnello “K” non ha mai ricevuto condanne e vive indisturbato a Santiago. Tuttora. Come nulla fosse…

A Cannes si dice NO

Inaspettato successo del film No del chileno Pablo Larrain, quello di Tony Manero e Postmortem. Tutti dicono che è stato uno dei capolavori del festival di Cannes di quest’anno, forse il migliore però ha vinto solo (si fa per dire) la sezione Quinzaine des Réalisateurs, che assicura un’ottima distribuzione al film. Gael Garcìa Bernal interpreta un pubblicitario che con una campagna mirata e ben confezionata riesce a rovesciare il regime di Pinochet in occasione del referendum del 1988, in cui alla fine il dittatore perse la possibilità di  restare in carica fino al 1997.

La sceneggiatura è firmata da Pedro Peirano ed il film è interamente girato con videocamere Ikegami del 1983 per rendere l’estetica delle immagini originali di quegli anni. Il regista intervistato sul successo riscosso dal film dichiara che
probabilmente è anche merito della particolare fase politica che buona parte del mondo  sta attraversando: magari non contro una dittatura, ma le proteste spagnole, arabe, chilene sono comunque una forma collettiva di associazione ed espressione per produrre cambiamenti  rilevanti nella società.
Il festival ha ospitato diversi film latinoamericani: l’uruguaiano Pablo Stoll con la commedia  familiare “3”, la messicana Yulene Olaizola con “Fogo” e il colombiano William Vega con “La sirga”,  sulle vittime di violenza nelle zone rurali in Colombia. Poi “Infancia clandestina” dell’argentino  Benjamín Avila, e “La noche de enfrente” del regista franco-chileno Raúl Ruiz, morto nel 2011.

Una stessa notte

L’argentino Leopoldo Brizuela vince il premio Alfaguara 2012. Su 785 manoscritti pervenuti l’ha spuntata il suo romanzo dal titolo Una misma noche, che racconta di una strana irruzione militare che si ripete nella stessa casa prima nel 1976, periodo della dittatura dunque non così infrequente, poi nel 2010. Leonardo Diego Bazán, il personaggio alter ego dello scrittore, presenzia a questi due inquietanti avvenimenti e decide di iniziare un’indagine per scoprire se ci sono connessioni fra le due vicende. Leopoldo Brizuela è nato a La Plata nel 1963, è già un autore e traduttore affermato in patria. La giuria ha voluto sottolineare “Lo stile mirabilmente contenuto dell’autore che, con economia espressiva, riesce a creare un testo perturbante ed ipnotico. Il romanzo tratta l’essenza del male e la corresponsabilità di ognuno nei casi di violenza ed ingiustizia”. L’autore a questo proposito dichiara: “Non cambierà la Storia del mio paese, ma almeno può far cambiare chi lo scrive e chi lo legge”.

La vita richiede coraggio

Fra tre giorni uscirà in Brasile il libro del giornalista Ricardo Amaral edito dalla casa editrice Primeira Pessoa ed intitolato Dilma. A vida quer é coragem. Si tratta di una specie di biografia che raccoglie aneddoti ed aspetti intimi ed inconsueti della Rousseff  senza però scadere nel gossip guardone che tanto è amato dai lettori di rotocalchi italici. Un aspetto molto interessante è che questa ricerca ha consentito di reperire una foto inedita degli anni in cui Dilma era una guerrigliera (1970). Ventiduenne, capello corto, davanti ai generali che la interrogano sfoggia uno sguardo fiero, forse appena un po’ stanco, ma assolutamente privo di paura. Per contro i generali hanno tutti e due le mani davanti agli occhi, quasi un gesto di pudore e sfiducia: sembrano matematicamente certi che l’interrogatorio non andrà nella direzione che vorrebbero. In quell’epocala Rousseff era in contatto con l’elite del movimento studentesco di Belo Horizonte, vicina ad organizzazioni rivoluzionarie quali il Polop, di cui fece parte, ed i gruppi di lotta armata. A quanto pare non ha mai ucciso nessuno, ma partecipò ad azioni di sabotaggio e “furto” per foraggiare il movimento.

Lula la scelse nel 2008 come sua candidata alla successione senza dirglielo esplicitamente e senza consultarla, nel periodo in cui la sua popolarità era all’80% e lei era quanto meno poco conosciuta. All’inizio del 2009 Dilma riunisce la sua famiglia in un ristorantino italiano del Bairro da Tristeza di Porto Alegre per confermare al suo secondo marito ed a sua figlia Paula la sua candidatura. Il marito osserva che dovrà confrontarsi con uno degli uomini politici più navigati del paese, José Serra, ma lei risponde con fermezza “Chi entra in campagna elettorale con un fardello sulle spalle è il mio avversario, non io”. Dopo pochi mesi si ritroverà nello stesso ristorante e con gli stessi commensali ad annunciare la sua malattia, un linfoma: era necessario avvisare al più presto Lula, per capire se fosse stato il caso di cambiare candidato, ma Lula fece sapere che non ne aveva nessuna intenzione, era sicuro che ne sarebbe uscita per il meglio. Nonostante i sondaggi nettamente favorevoli, Dilma dovette confrontarsi con un nuovo colpo di scena, l’emorragia di voti portati via a sorpresa dalla candidata Marina Serra, ma nonostante questo riuscì nell’intento di farsi eleggere. Qualche mese dopo pronunciò un pacato ma fermo discorso di apertura alle nazioni unite (prima donna al mondo) che personalmente credo resterà nella storia, in quanto segna decisamente un cambio di rotta negli equilibri di forza fra paesi del nord e del sud del mondo in ascesa economica. Il resto è cronaca di ogni giorno, non faccio fatica a credere che i brasiliani abbiano cotanta fiducia nella loro Presidente.

Gli ARCHIVI DEL CARDINALE

In questi giorni sul canale TVN,  Televisión Nacional de Chile, una serie televisiva sta scuotendo le coscienze dell’opinione pubblica. Si tratta de Los archivos del Cardenal, basata sul lavoro di difesa dei diritti umani realizzato dalla Vicaría de la Solidaridad durante il Régime Militare chileno (1973-1990). Il Cardinale in questione è l’ex Arcivescovo di Santiago, l’ormai deceduto Raúl Silva Henríquez, che celebrò un famoso Te Deum in onore di Pinochet qualche giorno dopo il golpe dell’11 settembre ’73, in forte contrasto con la Unidad popular di Salvador Allende, ma poi si convertì in un autentico nemico della dittatura in difesa dei diritti umani. La serie, interpretata da attori cileni molto famosi, si basa su fatti accaduti fra il ’73 ed il ’90. Il soggetto originale è di Josefina Fernández, figlia di un avvocato esterno della Vicaria de solidaridad che, leggendo il libro di testimonianze Chile, la memoria proibida scritto da Eugenio Ahumada, Augusto Góngora e Rodrigo Atria e pubblicato ancor prima del Informe Rettig, si rese conto che le testimonianze potevano efficacemente convertirsi in episodi di una serie. In effetti fin dal primo episodio ha registrato un enorme successo di pubblico e innescato diverse polemiche da parte della destra.

La serie racconta la storia dell’avvocato Ramón Sarmiento e dell’assistente sociale Laura Pedregal, che lavorano alla Vicaría de la Solidaridad, organismo fondato dallo stesso Cardinale che aveva come missione la difesa dei diritti umani. Gli assistenti sociali avevano il compito di ricevere i perseguitati politici ed i loro familiari, in special modo quelli dei desaparecidos. In seguito gli avvocati dovevano intraprendere azioni legali attraverso i recursos de amparo, Istituti di protezione dei diritti fondamentali tipici degli ordinamenti dell’America Latina che affidano alla Corte Suprema la tutela in ultima istanza dei diritti pubblici costituzionalmente garantiti su ricorso di qualunque persona fisica o giuridica che invochi un legittimo interesse, al fine di proteggere le vittime.

La prima puntata parte con Ramón Sarmiento, avvocato e membro di una familia altolocata che, indagando sull’apparizione di resti umani in una fattoria vicina alla sua proprietà, conosce  Laura Pedregal che lavora alla Vicaría insieme a suo padre. Quando cercano di mettersi in contatto con Sarmiento Laura ed il suo fidanzato vengono arrestati dagli agenti della CNI ma riescono a fuggire. Sarmiento intanto riesce a rintracciare la fotografia di un suo amico d’infanzia e, grazie ad essa, scopre con orrore che si tratta di uno dei cadaveri della fossa. La sua morte è stata occultata da un amico comune divenuto carabiniere, a questo punto l’avvocato inizia a prendere coscienza di ciò che sta accadendo nel paese. 

Nella seconda puntata il professor Rafael Rios viene arrestato da agenti della CNI e torturato crudelmente, Sarmiento informa la Vicaria e si reca con Laura Pedregal a casa del professore. La casa è completamente nel caos e vi si trova un’amica del professore, incinta, che viene prontamente portata al sicuro dai due al fine di evitarne l’arresto. Sarmiento ed il padre di Laura corrono in tribunale a presentare un recurso de amparo per il professore.

Vari esponenti del partito Renovación Nacional hanno espresso il loro malcontento nei confronti di TVN durante le sessioni parlamentari intercorse in questi giorni a La Moneda, a questi ha risposto il deputato PPD, Tucapel Jiménez Fuentes, figlio di un sindacalista ucciso dagli agenti di Pinochet:

Un paese senza memoria non ha futuro, oggi alzano la voce coloro che rimasero in silenzio quando nel nostro paese si commettevano i crimini più atroci, giustificando in qualsiasi modo le violazioni dei diritti umani che venivano commesse quando loro stessi facevano parte della dittatura…

 

http://www.vicariadelasolidaridad.cl/

RECUERDO DE LA MUERTE

25 anni fa moriva Jorge Luis Borges. In un remainders di Torino mi sono da poco imbattuta in una piacevole scoperta: Sette conversazioni con Borges di Fernando Sorrentino, un libro con copyright del ’96 uscito in Italia con Mondadori nel ’99.  L’allora giovane scrittore Sorrentino ha avuto il piacere di conversare con Borges tra il 1968 ed il 1969 in una stanza appartata della Biblioteca nacional, che si poteva raggiungere solo “aprendo alte porte” e salendo “inaspettate scale a chiocciola”. I temi delle conversazioni sono naturalmente letterari, ma anche politici e psicologici: aneddoti e ricordi autobiografici che sconfinano nell’imprecisione e nella fantasia, creando una realtà parallela impercettibilmente scostata dal vero per il lettore contemporaneo. L’aspetto a mio avviso più interessante del libro sta nel punto di vista meta letterario, vi si trovano le idee che il Borges di allora aveva su Roberto Arlt, Leopoldo Lugones, il Tango, una visione del suo rapporto con Bioy Casares ed una infinità di altri personaggi argentini del ‘900.

Il libro risulta allettante per gli appassionati di Borges e di letteratura argentina ma anche per sorprendenti analogie politiche con la realtà italiana contemporanea, che trae profondi spunti dal Peronismo:

 

F. S.: Secondo lei come può nascere nel cervello di qualcuno l’idea di diventare un Dittatore?

J. L. Borges: La verità è che mi sembra un’idea puerile, non è vero? Credo che l’idea di comandare ed essere ubbidito corrisponda più alla mente di un bambino che a quella di un uomo. Non credo che i dittatori in generale siano persone molto intelligenti. Anche il fanatismo  può portare a questo. Il caso di Cromwell, per esempio: ritengo che lui come puritano e calvinista, credesse di avere qualche diritto. Ma nel caso di altri dittatori più recenti, non credo siano stati spinti dal fanatismo. Credo piuttosto che a spingerli fosse un’ansia istrionica, un desiderio di essere applauditi, di essere obbediti e forse la semplice voglia puerile di pubblicità, che è una voglia che non capisco.

 

So che è banale ma Borges resta il mio scrittore preferito di sempre, non ritengo validi tutti i suoi giudizi e le sue prese di posizione, eppure resta immenso, multi sfaccettato, umile e divino, forse perché concordo in pieno con la sua idea di fruizione della letteratura:

 

…giudico la letteratura in modo edonistico. Vale a dire, giudico la letteratura secondo il piacere o l’emozione che mi dà. J. L. B.

A SCUOLA DI MORTE

Nata nel 1946, fino al 1984 ebbe sede a Panama nella zona dell’attuale Hotel Melià Panamà Canal. Dal 1963 al 2001 veniva chiamata Escuela de las Américas (School of the Americas) da non confondere con la Casa de las Americas de La Habana. Dal momento che con il passare del tempo questo nome faceva venire la pelle d’oca alla maggior parte dei latinoamericani e di coloro che nel mondo si occupavano a vario titolo di queste aree geografiche, venne poi ribattezzata Instituto del Hemisferio Occidental para la Cooperación en Seguridad. Si tratta di una scuola di Istruzione militare attualmente con sede a Columbus in Georgia. Più di 60.000 militari provenienti da 23 paesi latinoamericani, alcuni dei quali macchiatisi poi di crimini contro l’umanità, conseguirono il diploma in questa singolare scuola. In sintesi si insegna(va)no metodi di tortura, omicidio e repressione a molti aspiranti repressori latinoamericani. Ultimamente abbiamo visto all’opera alcuni zelanti diplomati rendersi protagonisti del Golpe militare in Honduras ai danni di Manuel Zelaya. La sua mission iniziale era diventare uno strumento di cooperazione tra le nazioni latinoamericane e gli Stati Uniti al fine di mantenere un equilibrio geopolitico che contrastasse l’insorgenza di organizzazioni di estrema sinistra all’interno del quadro della Guerra Fredda. Rapidamente si fecero prendere la mano ed in poche parole la scuola divenne uno dei principali strumenti della Dottrina di Sicurezza Nazionale statunitense, secondo cui la politica estera Usa doveva ad ogni costo e con ogni mezzo supportare le forze armate latinoamericane nel garantire l’ordine interno ai paesi, al fine di combattere tutto ciò che poteva favorire o appoggiare il comunismo nel contesto della Guerra Fredda. Nel 1950 venne trasferita, con il nome di Escuela del Caribe del ejercito de los Estados Unidos, sulla sponda atlantica del canale di Panama e fu adottato lo spagnolo come lingua ufficiale per l’insegnamento. La scuola può vantare tra i libri di testo manuali di tortura come il Kubark e fra i suoi docenti nazisti come Klaus Barbie, tanto da venire anche popolarmente definita Escuela para asesinos. Tra i suoi più illustri diplomati possiamo citare Manuel Noriega, dittatore panamense e collaboratore della CIA, Héctor Gramajo, ministro genocida in Guatemala, Viola e Gualtieri, protagonisti del colpo di Stato argentino del ’76, Manuel Contreras, a capo dell’intelligence di Pinochet e Vladimiro Montesinos, responsabile dell’intelligence peruviana durante il governo Fujimori. Durante la presidenza di Jimmy Carter una commissione parlamentare sospese le attività della scuola, che poi vennero riprese  a metà anni ’80 sotto il governo Reagan. La scuola ha più volte cambiato nome e faccia, ma secondo varie organizzazioni umanitarie, fra cui Amnesty International, si tratta solo di cosmesi. Il Venezuela, l’Argentina e l’Uruguay hanno smesso da qualche anno di inviare nuovi cadetti.

Mostrare e dimostrare le assenze

Un fratello piccolo, dopo più di 30 anni, utilizza il suo ingegno ed il suo talento come fotografo per dimostrarci, se ancora ce ne fosse bisogno, che è accaduto davvero, che non è solo fiction quello di cui un po’ tutti abbiamo sentito parlare e che oggi a taluni risulta una storia ripetitiva e lontana nel tempo e nello spazio. Su suggerimento del “tano” de largentina.org mi reco a questa mostra senza sapere di preciso cosa aspettarmi: AUSENC’AS di Gustavo Germano. Il luogo è tecnologicamente all’avanguardia e ben curato, l’allestimento minimale ma sofisticato. In mostra 14 foto di allora ed altrettante di oggi, in quelle degli anni ’70 le persone raffigurate sono di più, ti avvicini e capisci. Le medesime foto sono ricostruite 30 anni dopo. Quello che risalta è l’assenza, il lutto, il legame familiare o d’amicizia, la solitudine di chi è rimasto ed il senso di ingiustizia per chi non c’è più. In una di queste riconosco l’autore, il più piccolo di 4 fratelli, il più grande è scomparso, nella brochure c’è la sua storia di resistenza e di morte. In un’altra una bambina fra i 2 genitori felici su un lettone, in quella attuale una giovane donna da sola, al’incirca la mia età, di foto così vicino ai miei io ne ho a profusione. Il cuore mi si stringe, le lacrime escono da sole, l’espressione del mio viso resta congelata in quella sofferenza che posso condividere, ma i cui aspetti più crudeli ed intimi nemmeno so immaginare. Un paradossale senso di rabbia e rassegnazione mi lascia in silenzio.