Diana

Ho già avuto modo di parlare di Rubem Fonseca. Da poco la piccola casa editrice Urogallo di Perugia ha pubblicato il suo romanzo Il seminarista (2010). Visto che siamo in clima di festa della donna vi offro la traduzione di uno dei racconti inediti della raccolta sfortunatamente non tradotta in Italia che si intitola Ela e outras mulheres (2006).

Diana

Erano le tre di notte ed andai a prendere un caffè nell’unico locale aperto a quell’ora. Mi sedetti su uno sgabello del bancone e chiesi un caffè latte con pão na chapa1. Quel pane era una porcheria, pieno di lievito,e anche il caffè non era granchè, ma il pane ben tostato con il burro si lasciava mangiare.

La donna entrò mentre stavo prendendo il caffè, diede un’occhiata al bancone e si sedette al mio fianco. C’erano altri posti liberi. Era vestita di nero, aveva un trucco pesante, ma anche così si notava che era una donna giovane e carina. Doveva venire da una festa.

Mi chiamo Diana, disse, e tu?

Manoel.

Manoel? Lei sembrò sorpresa.

Mio padre si chiamava Manoel, mio nonno si chiamava Manoel. Il mio bisnonno si chiamava Manoel.

E tuo figlio?

Non ho figli. Ho un cane. Anche lui si chiama Manoel, ma io lo chiamo Mané, lui lo preferisce.

E tu cosa fai?

Niente, sono disoccupato.

E prima?

Sempre disoccupato. Ma so disegnare.

Allora fa un disegno per me, disse, prendendo il tovagliolo.

Mi serve una penna o una matita.

Diana chiese in prestito la penna al barista.

Mi mise davanti la penna ed il tovagliolo.

Disegnai un cane.

Questo è Mané, dissi.

Randagio?

Vero.

Posso tenere il disegno?

Si.

Ma lo voglio autografato.

Firmai Manoel sul tovagliolo.

Sono scema, disse.

Anche io, risposi.

Sto dicendo sul serio. Sono ninfomane. Sai che significa?

Si. Una donna che cerca compulsivamente l’orgasmo, senza riuscire ad averlo.

Questa è una definizione molto semplicistica.

Non è semplicistica, è solo semplice, e le definizioni semplici sono sempre le più corrette.

Noi ninfomani siamo persone impulsive. Vediamo un determinato uomo e vogliamo portarlo a letto. Non dirmi che non succede anche a voi? Solo che per gli uomini è più difficile soddisfare questo impulso, le donne resistono di più agli assalti. Ora, se io ti invito ad andare a letto non resisti, accetti, vero?

La guardai. Hai bevuto?

Ho bevuto champagne alla festa. Ma li c’erano solo uomini insipidi, e prima di fare la scelta sbagliata sono uscita.

Chiesi al barista un caffè doppio.

Bevi questo, dissi.

Lei prese il caffè. Pagai il conto.

Andiamo a fare un giro, dissi, non mi piace scopare donne ubriache.

Questo linguaggio mi arrapa, le parolacce mi arrapano.

Le strade erano vuote. Camminammo in silenzio.

Molte volte vogliamo solo soddisfare una fantasia sessuale, disse Diana. Oggi la mia fantasia è andare a letto con un uomo sadico, che mi prenda, mi minacci, mi dia qualche schiaffo, ma senza farmi troppo male. Tu sei questo tipo di uomo?

Forse.

Forse? O lo sei o non lo sei.

Lo sono. Più o meno.

Più o meno?

Vedrai. Vivi sola?

Si.

Il tuo edificio ha il portiere?

No.

Possiamo andare li?

Certo.

Arrivammo al suo appartamento.

Entrammo. Il posto era pulito, aveva un buon odore.

Lei prese una bottiglia di champagne dal frigorifero.

Posso bere un po’?

Un calice appena. Hai bisogno di rimanere lucida, così godi di più.

Lei prese due calici, pieni.

Andammo in camera. Il letto era di ferro, con una testata solida.

Non ho niente per farmi legare al letto. Devo strappare un lenzuolo. Ho alcune lenzuola vecchie da buttare.

Non è necessario, dissi, prendendo le manette dalla borsa. Ti ammanetto.

Manette? Che meraviglia. Sei un poliziotto?

No.

Dove le hai trovate?

Le ho comprate. Togliti i vestiti e sdraiati.

Mentre ammanettavo i suoi polsi alle sbarre della testata potei notare la perfezione del suo corpo. I seni erano piccoli e all’insù, anche se era sdraiata, non avevo mai visto ventre e cosce così perfette in tutta la mia vita.

Quanti anni hai?

Ventitré.

Mi tolsi i vestiti.

Tu sei grande, disse. Voglio dire, questa cosa.

Cerchi un orgasmo, no?

Si, disse lei, si.

Dopo aver leccato i suoi seni e la sua vagina, la penetrai lentamente e le diedi degli schiaffi in faccia, senza molta forza, ma anche così la sua faccia divenne rossa.

Che bello, che bello, disse Diana.

Questo non è niente. Ti stringo il collo e avrai una sensazione di morte in quel momento avrai l’orgasmo che non hai mai avuto in vita tua.

Voglio, voglio, disse lei, entusiasmata.

Strinsi lentamente il collo di Diana e sentii la sua vagina che si contraeva e poi un liquido abbondante inondò il mio pene.

Sto godendo, lei riuscì a dire, ansimante, mio Dio, sto godendo.

Strinsi di più il suo collo, e di più, con tutta la mia forza.

Quando ho sentito le ossa spezzarsi, sono venuto anche io, un godimento lungo e purificatore.

(Da Ela e outras mulheres Rubem Fonseca. Traduzione Alessandra De Luca e Daniela Scarpari)

1 Piccola baguette con burro riscaldata sulla piastra.

Cinema brasiliano a Firenze

brasil-img_{190784a9-a024-4671-b22b-b37834aad376}Quelli della compagnia di Fondazione Sistema Toscana e Cinema do Brasil presentano:
Brasil: seleção de cinema – il meglio del cinema brasiliano contemporaneo per la prima volta presso il Cinema Odeon Firenze
Molti gli ospiti presenti al festival, un’occasione unica per conoscere da vicino i protagonisti di una cinematografia in continua evoluzione.

GIOVEDì 13 FEBBRAIO OPENING FILM
ore 20.30
Serra Pelada di Heitor Dhalia (Brasile 2013 – 100′)
Sarà presente l’attore Juliano Cazarré

INGRESSO
Singolo spettacolo: 5€
Biglietto giornaliero: 8€
Abbonamento intera rassegna: 20€

Tranne dove diversamente indicato tutti i film sono in versione originale in lingua portoghese con sottotitoli in italiano.

Il festival è organizzato con il patrocinio dell’Ambasciata del Brasile e in collaborazione con l’Osservatorio per l’Arte Contemporanee dell’Ente Cassa di Risparmio di Firenze con COSPE e con l’Istituto IBRA..

INFO E PROGRAMMA:
www.quellidellacompagnia.it

info@quellidellacompagnia.it

Festival cinema ambiente e diritti umani in America Latina

oscarnyemeyer-622x414Si è conclusa il 14 dicembre a Roma la terza edizione del Festival che quest’anno ha voluto rendere omaggio al grande architetto brasiliano Oscar Niemeyer, morto il 5 dicembre scorso all’età di 104 anni. Il regista Andrea Bezziccheri ha presentato il suo documentario Oscar Niemeyer – L’Architettura e’ nuda.

In Italia ha suscitato molto scalpore il suo progetto per la costruzione dell’auditorium di Ravello inaugurato a gennaio 2010.

 

Spettacolo #Tessuto

Oggi promuovo uno spettacolo scritto da me che sarà messo in scena ad ARTERIE, festival rassegna di ipotesi espressive nel paesino di Cantalupo in Sabina. Tratta di una immaginaria emigrata brasiliana.

Sabato e Domenica sera al Festival ARTERIE di Cantalupo in Sabina
Cascina Barà presenta
Spettacolo performativo
Da un’idea di Daniela Zambon Scarpari
Scritto da Alessandra De Luca, Daniela Zambon Scarpari e Alessio Trillini
Adattamento per il Teatro: Daniela Zambon Scarpari
Interprete: Daniela Zambon Scarpari
Regia visuale e tag-tool idea: Fupete
Produzione e disegno dal vivo: Alessio Trillini
Musiche: Lorf, Alessandra De Luca
Musica dal vivo: Lorf
Con la collaborazione di Erika Gabbani – Nasonero
L’idea
Spettacolo performativo costruito su una delicata trama visionaria per immagini e sull’interazione fra recitazione, disegno e musica dal vivo.  L’atto teatrale sconfina non tanto spazialmente quanto concettualmente, avvalendosi di altre modalità artistiche ed incorporandole nell’azione, dando vita ad uno spettacolo fluido e mobile, in certi passi performativo, che qualcuno ha definito “quasi un film dal vivo”. Un esperimento che ha la finalità di stabilire un delicato rapporto di fiducia con il pubblico attraverso un dialogo fra modalità espressive diverse che costruiscono situazioni poetiche, con inoltre lo scopo di trasferire agli spettatori e trascendere contenuti forti, violenti, talvolta brutali. Un tipo di teatro sociale che indaga due ordini di conflitti contemporanei: l’esclusione dello straniero che trova la sua deriva nell’annientamento dell’individualità, e l’impossibilità di comprendere in pieno il punto di vista dell’altro all’interno di un rapporto intergenerazionale, in specifico quello tra madre e figlia.
La storia
Nell’arco di una notte Mia racconta la storia di sua madre Teresinha, un’immigrata che lavorava in Italia come sarta, scomparsa misteriosamente. Teresinha fin da piccola collezionava parole, stava costruendo un diario-patchwork. Mia ritrova il diario di tessuto all’arrivo in casa di sua madre, ma la casa è vuota. Leggendo il diario scopre parti di se stessa ed inizia a conoscere più a fondo la storia di questa donna che non ha mai potuto occuparsi di lei: la durezza della sua vita, la fuga, la violenza, la miseria. La sarta operaia è sempre vissuta in clandestinità, incastrata in un mondo sospeso, che non si trova né nella sua patria d’origine né in quella che la accoglie per lavoro. Il patchwork è incompleto e Mia decide di finirlo, ma si punge con un ago e inizia a dissanguarsi, prova a fermare l’emorragia ma non ci riesce come per un lento, malvagio incantesimo. Tanto più comprenderà la storia di sua madre e la sua, quanto più il destino di Mia si sovrapporrà a quello di Teresinha, ma troverà nuovi modi per torturarla…
Chi
Lo spettacolo è frutto dell’incontro di persone dedite ad attività artistiche diverse e con background differenti, che si sono organizzate per lavorare alla sua realizzazione come trovandosi in uno spazio pubblico astratto, poroso, privo di confini e di restrizioni categoriche. Ne nasce una regia collettiva, un lavoro corale sul testo, un Collettivo che risiede idealmente nella Cascina Barà.- dintorni di Pisa. Lo spettacolo è stato finalista al Premio 12 donne – Città di Rieti 2011 e semifinalista alla Borsa Teatrale Anna Pancirolli di Milano 2012.

La terra e l’arte: Vik Muniz

Nel 2003 mitrovo ad assistere all’inaugurazione del MACRO nei pressi di Porta Pia, finalmente un Museo d’arte contemporanea nella città di Roma. Fra i vari artisti che espongono mi colpisce subito e solo Vik Muniz. Disegni incredibili realizzati con la marmellata che sembrano acquerelli, piccoli schizzi dall’inusitata perfezione formale con tratti segnati da fili di lana ed infine grandi ritratti particolareggiatissimi composti interamente da coriandoli di carta di riviste e giornali. In quel momento il riuso ed il riciclo non erano ancora granché di moda da noi, si trattava di un’operazione artistica assolutamente originale e strepitosamente sofisticata. Dato il nome, ho subito tratto facili conclusioni: un artista tedesco, vista anche la sua cultura di provenienza molto più attenta all’ambiente rispetto alla nostra, ha realizzato questi capolavori. Invece leggendo la biografia dell’artista scopro con sorpresa una realtà totalmente diversa: i pregiudizi ed i luoghi comuni… Vik sta per Vicente José de Oliveira Muniz, brasiliano di San Paolo classe ’61 che dopo aver ricevuto un risarcimento per una pallottola che lo ha colpito “accidentalmente” si è trasferito a New York ed ha aperto uno studio a Brooklin. Ora Vik ha appena concluso una mostra presso l’Ambasciata brasiliana di Piazza Navona, ma è il documentario incentrato sulla sua ultima operazione socio-culturale che lo sta portando definitivamente alla ribalta: Waste Land, un film di Lucy Walker, Karen Harley e João Jardim.

Ai confini di Rio de Janeiro, con il passare del tempo e la mancanza di controllo del territorio da parte delle autorità, ora si trova la più grande discarica del mondo che quotidianamente consente la sopravvivenza di migliaia di persone, i cosiddetti catadores, ovvero riciclatori: incessantemente persone di ogni età senza un posto nella società si aggirano tra gli enormi cumuli di rifiuti alla ricerca di qualsiasi cosa sia riciclabile cioè vendibile o barattabile per la propria sopravvivenza. Vik torna in Brasile per vivere un po’ di tempo a Jardim Gramacho, un luogo in cui il 50% della popolazione vive di riciclaggio, con l’obiettivo di creare un’opera d’arte con i rifiuti. Man mano il progetto iniziale si trasforma e coinvolge gli stessi catadores. La regista inglese Lucy Walker si incarica delle riprese che testimoniano la crescita e l’evoluzione di questo gruppo, che ha realizzato un’opera d’arte dalla spazzatura raccolta.  La spazzatura si è trasformata in immagini strepitose, che a loro volta sono state fotografate e trasformate in iconografie giganti composte dai materiali riciclabili. I catadores hanno avuto un’opportunità di riscatto dalla propria miseria ed il film, costato comunque moltissimo a causa dei quattro anni di lavorazione, è stato candidato agli Oscar 2011 come miglior documentario. “Volevo cambiare la mentalità delle persone a partire dalle cose che loro usano nel quotidiano: e la prima cosa sono i rifiuti. C’è talmente tanto eccesso, qui, da diventare arte”, dice ad un certo punto Muniz nel film. L’ultima notizia è che grazie a questa operazione l’artista devolverà duecentocinquantamila dollari ad un’associazione che difende i diritti dei catadores della discarica di Jardim Gramacho, che serviranno per la creazione di un vero centro di riciclaggio al posto della discarica. Un prova che l’arte ha una sua ragion d’essere: può effettivamente migliorare la realtà.

La vita richiede coraggio

Fra tre giorni uscirà in Brasile il libro del giornalista Ricardo Amaral edito dalla casa editrice Primeira Pessoa ed intitolato Dilma. A vida quer é coragem. Si tratta di una specie di biografia che raccoglie aneddoti ed aspetti intimi ed inconsueti della Rousseff  senza però scadere nel gossip guardone che tanto è amato dai lettori di rotocalchi italici. Un aspetto molto interessante è che questa ricerca ha consentito di reperire una foto inedita degli anni in cui Dilma era una guerrigliera (1970). Ventiduenne, capello corto, davanti ai generali che la interrogano sfoggia uno sguardo fiero, forse appena un po’ stanco, ma assolutamente privo di paura. Per contro i generali hanno tutti e due le mani davanti agli occhi, quasi un gesto di pudore e sfiducia: sembrano matematicamente certi che l’interrogatorio non andrà nella direzione che vorrebbero. In quell’epocala Rousseff era in contatto con l’elite del movimento studentesco di Belo Horizonte, vicina ad organizzazioni rivoluzionarie quali il Polop, di cui fece parte, ed i gruppi di lotta armata. A quanto pare non ha mai ucciso nessuno, ma partecipò ad azioni di sabotaggio e “furto” per foraggiare il movimento.

Lula la scelse nel 2008 come sua candidata alla successione senza dirglielo esplicitamente e senza consultarla, nel periodo in cui la sua popolarità era all’80% e lei era quanto meno poco conosciuta. All’inizio del 2009 Dilma riunisce la sua famiglia in un ristorantino italiano del Bairro da Tristeza di Porto Alegre per confermare al suo secondo marito ed a sua figlia Paula la sua candidatura. Il marito osserva che dovrà confrontarsi con uno degli uomini politici più navigati del paese, José Serra, ma lei risponde con fermezza “Chi entra in campagna elettorale con un fardello sulle spalle è il mio avversario, non io”. Dopo pochi mesi si ritroverà nello stesso ristorante e con gli stessi commensali ad annunciare la sua malattia, un linfoma: era necessario avvisare al più presto Lula, per capire se fosse stato il caso di cambiare candidato, ma Lula fece sapere che non ne aveva nessuna intenzione, era sicuro che ne sarebbe uscita per il meglio. Nonostante i sondaggi nettamente favorevoli, Dilma dovette confrontarsi con un nuovo colpo di scena, l’emorragia di voti portati via a sorpresa dalla candidata Marina Serra, ma nonostante questo riuscì nell’intento di farsi eleggere. Qualche mese dopo pronunciò un pacato ma fermo discorso di apertura alle nazioni unite (prima donna al mondo) che personalmente credo resterà nella storia, in quanto segna decisamente un cambio di rotta negli equilibri di forza fra paesi del nord e del sud del mondo in ascesa economica. Il resto è cronaca di ogni giorno, non faccio fatica a credere che i brasiliani abbiano cotanta fiducia nella loro Presidente.

Una “extracomunitaria” per fare l’Italia

Non saprei dare torti e ragioni. Non ho abbastanza elementi per parteggiare con cognizione di causa per l’una o l’atra fazione. Resta solo che tutte hanno combattuto giocandosi il tutto per tutto, mescolando gli ideali a condizioni e sentimenti personali. Il risultato di questo conflitto è un posto chiamato Italia. Brigantesse, combattenti, coraggiose donne contro corrente: tra loro la più nota Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, conosciuta come Anita (Laguna, Brasile 30 agosto 1821- Mandriole di Ravenna, Italia 4 agosto 1849). Quel che credo sia più importante ora è ricordare le loro storie, farle emergere dall’oblio, per questo saluto con piacere le riprese della miniserie Rai che andrà in onda in autunno su Anita Garibaldi,  interpretata da Valeria Solarino e Giorgio Pasotti con la regia di Claudio Bonivento incentrata sui dieci anni della relazione tra Garibaldi e Anita, dal 1839 data dell’incontro della coppia in Brasile in cui lei aveva 18 anni e lui 32, alla sua morte nelle paludi del ravennate durante i moti del ‘48.

Anita, un monumento di Mario Rutelli del ’32 al Gianicolo la ricorda al galoppo, con un figlio in braccio ed una pistola nella mano, sotto ora sono custodite le sue ceneri. L’unica donna profondamente amata da Garibaldi, giovanissima si legò a lui, condividendo fino alla fine una vita avventurosa e complicata, fatta di stenti e sacrifici, ma anche e soprattutto di ideali e battaglie per terra e per mare, dall’America all’Italia.

Brasiliana figlia di un mandriano, in famiglia era chiamata Aninha, diminutivo di Ana in portoghese. Fu Garibaldi ad attribuirle il diminutivo spagnolo di Anita, con il quale è universalmente nota. Dopo che la famiglia si fu trasferita a Laguna, nel 1834, in pochi mesi morirono il padre e tre fratelli maschi. Il trasferimento sembra si fosse reso necessario per allontanarsi dalle minacce di vendetta di un carrettiere di Morrinhos, luogo in cui vivevano, il quale, avendo importunato Anita con “modi poco rispettosi”, si era visto sfilare il sigaro di bocca dalla ragazzina che glielo spense sul viso. Il 30 agosto 1835, a 14 anni, Anita diventa moglie di un calzolaio, Manuel Duarte de Aguiar, nella cittadina di Laguna, lo attesta un atto di matrimonio ancora esistente ed una testimonianza dello stesso Garibaldi nelle sue “Memorie“. Nel luglio del 1839 incontra Garibaldi a Laguna, da quel momento, dopo aver abbandonato il marito, Anita sarà la donna di Garibaldi, la madre dei suoi figli e compagna di tutte le sue battaglie. Combatterà sempre al pari degli uomini. All’inizio del 1840, nella battaglia di Curitibanos, cade prigioniera delle truppe imperiali brasiliane. Il comandante, molto colpito dal temperamento della ragazza, le concede di cercare il cadavere del marito sul campo di battaglia. Anita, approfittando della distrazione delle guardie, ruba un cavallo e fugge. Si ricongiunge con Garibaldi a Vacaria, nel Rio Grande Do Sul. Il 16 settembre 1840 nasce il loro primo figlio al quale danno il nome di Menotti, in onore del patriota Ciro Menotti. Dodici giorni dopo il parto, Anita sfugge nuovamente alle truppe imperiali che avevano circondato la sua casa uccidendo gli uomini lasciati a guardia da Garibaldi. Con il neonato in braccio, esce da una finestra ed a cavallo fugge nella foresta. E’ questo il momento leggendario immortalato dalla statua equestre sul Gianicolo. Rimane nascosta nella selva per quattro giorni, senza viveri e con il figlio al petto viene ritrovata dal compagno. Nel 1841, essendo divenuta caotica la situazione militare della rivoluzione brasiliana, Garibaldi e Anita si trasferiscono a Montevideo, vi rimarranno sette anni durante i quali l’uomo manterrà la famiglia impartendo lezioni di francese e di matematica. Nel 1842 i due si sposano. Stando alle sue “Memorie“, Garibaldi dovette dichiarare formalmente di avere notizia certa della morte del precedente marito di Anita. Negli anni successivi nascono i figli: Rosita (1843) morta a 2 anni, Teresita (1845) e Ricciotti (1847), quarto e ultimo figlio. Nel 1848, alla notizia delle prime rivoluzioni europee, Anita con i figli si imbarca per Nizza dove viene ospitata dalla suocera, il marito la raggiungerà qualche mese più tardi.  Il 9 febbraio 1849 presenzia a Roma alla proclamazione della Repubblica Romana. Gli eserciti francese e austriaco attaccano la città eterna per ripristinare il potere papale, ma i garibaldini danno vita ad una eroica resistenza, respingendo gli assalti quartiere per quartiere per molti giorni. La superiorità di uomini e mezzi a disposizione delle forze avversarie è comunque schiacciante e dopo l’ultimo scontro sostenuto nella zona del Gianicolo, Garibaldi e i suoi sono costretti alla fuga.

Dopo la resa di Roma  Garibaldi ed Anita assieme ai compagni, compiono un disperato viaggio verso Venezia che ancora resisteva agli Austriaci con la speranza di  trasferire l’insurrezione nell’Italia centrale ma, inseguiti da truppe francesi, pontificie ed austriache, nel luglio del 1849  ripiegarono verso la Repubblica di San Marino, poi infine nel ravennate. Anita è incinta di sei mesi, ha contratto la malaria perniciosa, viene portata presso la fattoria del patriota Guiccioli:

“Nel posare la mia donna in letto, mi sembrò di scoprire sul suo volto, la fisionomia della morte. Le presi il polzo…più non batteva! Avevo davanti a me la madre de’ miei figli, ch’io tanto amava! Cadavere!…” Giuseppe Garibaldi, Memorie, [Milano] : Kaos, 2006

Garibaldi è costretto a riprendere la fuga. Piegato dalla sconfitta e dai rimorsi si salverà e si trasferirà in Perù per poi acquistare metà dell’isola di Caprera e finirvi i suoi giorni.

Il cadavere di Anita, rinvenuto il 10 agosto del ’49 dalla polizia papalina, rivelò segni evidenti di strangolamento, come recita il rapporto del delegato della polizia di Ravenna, il conte Alberto Lovatelli, al legato pontificio:

“Fu osservato avere gli occhi sporgenti e metà della lingua sporgente tra i denti, nonché la trachea rotta e un segno circolare intorno al collo, segni non equivoci di sofferto strangolamento”. Secondo alcune ricostruzioni storiche Garibaldi avrebbe affidato la sua sepoltura ai fattori Ravaglia, che gli avevano dato rifugio. La malaria perniciosa nello stadio finale può provocare morte apparente: è possibile che Anita rinvenne poco prima della sepoltura e per paura i fattori la strangolarono temendo l’arrivo della polizia che inseguiva Garibaldi.

http://www.capannogaribaldi.ra.it/trafila/index_trafila.htm

Il Museo vivo: persone che fanno un Museo

Nella città di São Paulo esiste un museo speciale: il Museu da Pessoa (Museo della Persona), che raccoglie storie di gente comune con l’intento di valorizzarle e diffonderle nella società al fine di rendere la Storia del mondo più equa e rappresentativa di tutti i segmenti della società. I principi cardine che si trovano dietro questo progetto sono molteplici. Per prima cosa si parte dal presupposto che se ogni vita ha valore deve far parte della memoria sociale. Ascoltare l’altro è essenziale per rispettarlo e comprenderlo come pari, inoltre si riconosce ad ogni persona un ruolo come agente di trasformazione della Storia. Il Museo si prefigge l’obiettivo di integrare gli individui e i distinti gruppi sociali al fine di rompere l’isolamento ed implementare processi fondamentali per mutare le relazioni sociali, politiche ed economiche, ovvero costruire una rete internazionale di storie di vita capace di contribuire ad un positivo mutamento sociale. Il Museo nasce nel 1991, in tempi in cui la Rete non era ancora diffusa, ma già venne progettato come museo “virtuale”, ovvero consisteva in una raccolta di storie di vita organizzata su base digitale (Banche dati, CD Rom etc.) al fine di creare un nuovo spazio in cui, chiunque volesse, potesse avere l’opportunità di preservare la propria storia. Attualmente il Museo è formato da quattro nuclei territoriali autonomi: Brasile, Canada, Stati Uniti e Portogallo; quello brasiliano è stato il primo e fin dall’inizio nacque con l’obiettivo di trovare modalità per autofinanziarsi e poter vivere e crescere autonomamente. A questo scopo il museo realizza numerosi progetti educativi, di memoria istituzionale e sviluppo locale basati su una metodologia di Storia orale i quali, oltre a far nascere nuovi prodotti come elaborati, pubblicazioni o audiovisivi, aggiungono nuove storie alla collezione museale. Nel 2003 viene lanciato il Portale del Museu da Pessoa, gli orizzonti si ampliano esponenzialmente: esposizioni virtuali, video, costruzione di reti e soprattutto la possibilità di ricevere nuovo materiale direttamente attraverso il Portale, tramite la sezione “Conte sua História”.  Un’operazione culturale importante, promossa da un’organizzazione della società civile, che andrebbe esportata e diffusa in tutti quei Paesi che hanno a cuore il proprio futuro e sanno che assolutamente non possono permettersi di lasciare indietro nessuno.

http://www.museudapessoa.net/

Più rispetto per Lispector

Trattasi di una importantissima ed affascinante scrittrice brasiliana nata nel 1920 in Ucraina e morta a Rio de Janeiro stroncata da un cancro nel 1977. I suoi racconti sono stupefacenti per l’epoca ed estremamente attuali; nella sua scrittura non c’è indugio nella femminilità e tantomeno un sottile senso di inferiorità che tante scrittrici della sua epoca denunciano loro malgrado. La sua è una scrittura asciutta e poetica, le trame talvolta geniali, i temi attualissimi. Si pensi al filo conduttore che attraversa i racconti di Laços de Família o ancor di più a A via crucis do corpo, una raccolta di racconti che parla dei diversi approcci al corpo di vari protagonisti, uscito nel 1974, quando ancora di culto del corpo non si parlava granché. La scrittrice fin dall’infanzia non ha avuto una vita semplice: famiglia ebrea emigrata, resta orfana a nove anni di una madre costretta in sedia a rotelle, nel momento in cui la raggiunge il successo è separata con due figli, uno dei quali ha problemi di schizofrenia. Una notte si addormenta con la sigaretta accesa e provoca un incendio, passerà tre giorni fra la vita e la morte per le ustioni rischiando anche una amputazione della mano destra. Quel momento cambia definitivamente la sua vita, intensifica la sua attività di traduttrice dall’inglese e di giornalista, scrive storie per l’infanzia, pubblica il romanzo Agua viva ed infine A hora da estrela, da molti considerato il suo capolavoro. E’ rimasta vittima di una critica che le ha affibbiato l’etichetta di femminista o quella più edulcorata ed ipocrita che ha catalogato le sue opere come “scrittura al femminile”. Niente di più falso e limitante, i suoi temi non sono il conflitto uomo/donna o le divisioni di genere, bensì: perché scrivo, perché vivo, perché devo morire. A questo proposito vorrei divagare un po’ ed aggiungere che ritengo estremamente offensive le “Storie della letteratura” che cercano di racchiudere in un unico capitolo tutte le autrici solo perché donne, e che utilizzano espressioni quali appunto “scrittura al femminile”, le artiste non hanno bisogno di essere messe nelle Riserve, se valgono meritano lo stesso trattamento degli uomini, inoltre dovrebbero esserci più docenti universitarie donne a cimentarsi in nuove “Storie della letteratura”.

http://www.claricelispector.com.br/