Danze del Carnevale di Oruro

and-caporalOruro è una città dell’altipiano boliviano, il cui nome deriva da una lingua indigena e significa “centro della terra”. Ospita il secondo carnevale più importante dell’America Latina dopo quello di Rio de Janeiro. Il Carnevale di Oruro è stato proclamato nel 2001 dall’Unesco Opera maestra del Patrimonio Orale e Intangibile dell’umanità. A parte il desfile, si tratta di una festa assai diversa da quella carioca, che siamo abituati a vedere in televisione. E’ allo stesso tempo una celebrazione religiosa ed il risultato di un processo sincretico ed interculturale: la festa di Ito della civiltà Uru, di epoca precolombiana, venne progressivamente trasformata in un rituale cristiano di devozione alla Vergine del Socavón. Tipiche di questa festa sono le numerose danze con cui si accompagna la sfilata: Caporales, Tinkus, Incas, LLamerada, Kullawada e soprattutto Diablada e Morenada.
La Morenada o Danza de los Morenos sembra sia originaria proprio di Oruro. Le sue origini risalgono ai tempi della colonizzazione, quando gli schiavi africani comparvero in città. Intorno alla metà del ‘500 a Potosì sfilò una fastosa processione di schiavi e dei loro padroni, i nordafricani e gli etiopi erano associati al mondo musulmano, l’immagine degli schiavi africani e dei mori nell’immaginario andino inevitabilmente si sovrappose. Stando alla cronaca di Guamán Poma de Ayala gli schiavi erano imbroglioni, ladri, ubriaconi e molestavano con frequenza le donne indigene, ma riconosce anche che le pessime condizioni di vita e la cattiva alimentazione non lasciavano loro molte altre scelte. Dapprima solo gli indigeni partecipavano alla danza travestendosi da neri, poi progressivamente divenne un’espressione condivisa da tutte le etnie e le classi sociali della città.
Nella danza i caratteristici passi dei neri che pigiano esageratamente la terra sono relazionati con il pestaggio dell’uva, poichè gli schiavi erano stati trasferiti nella zona per il lavoro nei campi. Le maschere accentuano i caratteri somatici con occhi che escono dalle orbite e labbra grosse con la lingua di fuori, a simboleggiare la fatica degli schiavi. Il caporale è il capo delle truppe dei morenos, detto anche Re Moreno o Super Achachi, porta una corona dorata e sembra sia una delle maschere più antiche della danza; rappresenta la conservazione della storia e della tradizione orale ed è il personaggio principale della danza.
mdiablo088La diablada è la danza simbolo del Carnevale di Oruro, rappresenta il confronto tra le forze del bene e quelle del male. Secondo uno studio effettuato proprio dall’Unesco, questa danza ha le sue radici nei rituali ancestrali Uru, in particolare nella danza chiamata Llama llama tipica della Festa dedicata al dio Tiw, protettore delle miniere, dei laghi, dei fiumi e delle caverne, di cui Oruro era il principale centro religioso. Il rituale si consolida attraverso un lento processo storico che abbraccia diversi secoli, dalla fine del ’700 al 1944. La danza progressivamente si trasforma da rito peculiare degli indigeni minatori a manifestazione folklorica di tutta la società di Oruro. Nel ‘44 i gruppi di “comparsas de diablos” vengono definiti Diabladas. La prima “Diablada” nasce però nel 1904 con il nome di “Gran Tradicional Auténtica Diablada Oruro”. Si definiscono musiche, costumi, coreografie e trame. Un’altra teoria fa risalire le origini della danza ad un rituale Aimara in onore della Pachamama, divinità protettrice che rappresenta la terra e la fecondità. Ma alcune fonti riportano invece che gli abitanti aymara vedendo gli Uru mascherati li avrebbero chiamati llama llama. Sicuro è che con l’evangelizzazione gli Uru continuarono le proprie tradizioni di nascosto, ne venne fuori un singolare sincretismo in cui il dio Huari, el Tio, si nascondeva dietro il Diavolo pentito dei suoi peccati e convertitosi in devoto alla vergine di Socoyan. Le festività native furono proibite in tutto il paese durante il Viceregno ad esclusione proprio di quelle della città di Oruro, in seguito anche in città si adattarono alle tradizioni cristiane and-diablotrasformandosi nel Carnaval de Oruro. Una leggenda racconta la storia del Dio Wari che in lingua uru vuol dire anima: mentre ascoltava gli Uru venerare Pachacamaj, rappresentato da Inti, si vendicò inviando formiche, lucertole, rospi e serpenti, considerati sacri. Ma gli Uru furono protetti da Ñusta, mutato in condor, che trasformò le creature nelle colline sacre sui quattro punti cardinali di Oruro ( “Sagrada serranía de los urus”), formando così un anfiteatro naturale che divenne centro di pellegrinaggio. Gli animali che compaiono nella leggenda sono rappresentati da altrettante maschere del Carnevale. Molte fonti riportano che i diablos, protagonisti di questa danza, rimpiazzerebbero i morti disseppelliti dalle tombe di antichi rituali preispanici, diventando i mediatori tra il popolo e la Vergine, destinataria delle cerimonie. Il saggio del 1961 sulla Diablada della storica ed etnomusicologa Julia Elena Fortún intitolato La danza de los diablos, stabilisce una relazione fra la diablada ed alcune danze tipiche della Catalogna (Ball de diables e Els sets pecats capitals).
chinasupay084La danza narra della lotta fra l’arcangelo Michele e Lucifero, la diavolessa China Supay ed altri diavoli li accompagnano, alcune teorie ritengono che la danza sia stata influenzata dall’introduzione nelle zone andine degli autos sacaramentales, un tipo di teatro sacro di provenienza spagnola. Una leggenda racconta che durante il sabato di carnevale del 1789 un bandito di nome Anselmo Bellarmino soprannominato Nina-Nina o Chiru-Chiru venne ucciso in un agguato e prima di morire ebbe la visione della Vergine della Candelaria. L’immagine della Vergine a grandezza naturale apparve miracolosamente anche nella casa del bandito dopo la sua morte. L’anno seguente una truppa di diavoli danzarono in onore della Vergine durante il carnevale. Lo studioso Max Harris ritiene che questa leggenda potrebbe essere connessa alla ribellione di Túpac Amaru II. Le musiche più antiche che accompagnano la danza sono del XVII secolo: suoni intensi e metallici delle trombe e dei contrabbassi mischiati agli strumenti aerofoni autoctoni.
Il sabato, proprio oggi, si realizza la fastosa entrata del Carnevale, in cui i gruppi folklorici si cimentano in spettacolari e complesse coreografie. E’ il giorno centrale della festa, chiamato anche sabato di pellegrinaggio. Per maggiori informazioni rimando al documentario del MUSEF,  Museo nazionale di etnografia e folklore boliviano.

LOS DIAS MAS FELICES

Segnalo l’uscita del libro di Rodrigo Hasbún, a mio avviso uno dei più interessanti giovani talenti selezionati dalla Rivista Granta en español, purtroppo non sono ancora riuscita a procurarmelo…ma qualcuno molto più autorevole di me lo ritiene un libro importante:

« No es un buen escritor. Es uno de los grandes.»

Jonathan Safran Foer

«Rodrigo Hasbún: recuerden este nombre.»

Edmundo Paz Soldán

BUEN VIVIR: IDEE, DISCORSI E PRATICHE

Quello del “Buen vivir” è un concetto autenticamente latinoamericano, anzi, ad essere precisi sarebbe più corretto, ma non del tutto, usare l’aggettivo indoamericano. Nella tradizione indigena di Abya Yala, ovvero del continente, invece di vivir mejor si dice buen vivir e l’espressione indica un concetto ben differente. In genere in occidente ci si pone il problema di vivere sempre meglio e godere di una migliore qualità di vita, perciò gli Stati associano la qualità di vita al Prodotto Interno Lordo, che rappresenta le ricchezze materiali prodotte da un paese, indicatore in base al quale i paesi meglio posizionati sono Stati Uniti e Germania. Il Pil presuppone che goda di una buona qualità di vita chi consuma di più e meglio. L’ONU ha recentemente introdotto la categoria ISU, «l’Indice di Sviluppo Umano», in cui vengono inclusi valori come salute, educazione, uguaglianza sociale, sostenibilità ambientale, equità di genere etc. Secondo l’ISU, Cuba è decisamente meglio posizionata rispetto agli Stati Uniti anche se possiede un PIL molto inferiore. Utilizzando l’ISU in cima alla lista si trova il Bhutan, piccolo paese ai piedi dell’Himalaya incastonato tra Cina e India; lo Stato è molto povero materialmente,ma presenta una società molto più equa e meno conflittuale di altre.

Il «vivere meglio» presuppone un’etica di progresso illimitato ed incita a una competizione perpetua con gli altri: per far si che qualcuno «viva meglio» milioni di persone devono «vivere male». Il Buen vivir, impossibile da concepire senza la comunità, ha invece come finalità un’etica del sufficiente per tutti e non solo per l’individuo, presuppone una visione olistica e includente che considera oltre l’essere umano, l’aria, l’acqua, il suolo, le montagne, gli alberi e gli animali, lo stare in profonda comunione con la Terra e le energie dell’Universo, in permanente armonia con tutto. Ecuador e Bolivia hanno incluso il concetto di Buen Vivir nelle rispettive costituzioni come obiettivo sociale dello Stato e di tutta la società. E’ un concetto che inevitabilmente irrompe a contraddire la logica capitalista, con il suo individualismo e la monetarizzazione e disumanizzazione della vita. Lo scenario ideale del Buen vivir è ovviamente la campagna, in cui è più facile sviluppare piccole comunità autosufficienti, ma vi sono molti esperimenti anche in città: assemblee di quartiere, riappropriazione di spazi comuni, orti urbani etc.  Si tratta di una piattaforma, di un insieme di idee in via di elaborazione che si  sta sviluppando nello stesso momento in modi diversi ed in distinti Paesi  per iniziativa di differenti attori sociali: un concetto in costruzione che si modella e conforma ad ogni singola circostanza sociale ed ambientale.  

Sul piano teorico il concetto risulta in opposizione radicale con le basi concettuali dello sviluppo, specialmente riguardo all’ideologia del progresso. Inoltre il Buen vivir si discosta dai discorsi che celebrano la crescita economica o il consumo materiale come indicatori di benessere, i suoi appelli alla qualità della vita passano per altre vie e includono tanto le persone quanto la natura. Infine vi sono già in atto azioni concrete quali progetti politici di cambiamento, piani governativi, quadri normativi e forme di elaborazione di alternative allo sviluppo convenzionale. Le critiche che scaturiscono dalla riflessione sul Buen vivir riguardano la base antropocentrica dell’attuale sviluppo, a causa della quale tutto è valutato in funzione della sua utilità per gli esseri umani, ciò presuppone un cambiamento radicale nel modo di interpretare la natura, difatti in diverse manifestazioni del concetto si trasforma l’ambiente in soggetto di diritti: non è sufficiente promuovere uno “sviluppo alternativo”, essendo questo interno alla stessa visione del progresso, della gestione della natura e delle relazioni tra esseri umani. Secondo le parole dell’antropologo colombiano Arturo Escobar invece di insistere sullo “sviluppo alternativo” si dovrebbero costruire “alternative di sviluppo”. Sulla scia dell’introduzione all’interno delle Costituzioni, si sono sviluppate numerose discussioni costruttive sulle implicazioni del Buen vivir, in particolare i contributi boliviani sul suma qamaña. Le società indigene boliviane hanno una cosmovisione del mondo che chiamano suma qamaña, Andrés Uzeda si chiede se il suma qamaña sia effettivamente una elaborazione indigena genuina o un’invenzione postmoderna degli intellettuali aymara contemporanei, in ogni caso si tratta di un concetto importante scaturito dalla riflessione dei popoli nativi americani ed adattato alle singole realtà con tratti comuni ed eterogenei, poiché non si può pretendere, ad esempio, che l’idea del sumak kawsay dei kichwa dell’Ecuador sia estendibile con successo a tutta l’America Latina ed allo stesso modo, neppure si può riconvertire o riformattare la Modernità in un postmodernismo del Buen Vivir. Eduardo Gudynas, ricercatore del Centro latinoamericano di ecologia sociale di Montevideo ci segnala che é importante inoltre non cadere in un’altra semplificazione: il Buen vivir non si riduce al sumak kawsay o suma qamaña andino in quanto idee simili si incontrano in altri popoli. Anche tra i saperi occidentali esistono posizioni critiche sullo sviluppo, in molti casi emarginate o escluse, che ad un esame attento si rivelano ricerche del Buen vivir, come ad esempio la critica femminista contemporanea. Esistono tradizioni di  Buen vivir anche nelle comunità di afrodiscendenti del Pacifico in Colombia o nei raccoglitori di caucciù dell’Amazzonia. Bisogna guardarsi da un altro pericolo: quello di “modernizzare” il Buen vivir, trasformandolo in una forma accettabile del repertorio moderno occidentale. il Buen vivir deve essere riconosciuto come un concetto plurale, è importante chiarire che non esiste un Buen vivir “indigeno”, giacché la categoria “indigeno” è un artificio che serve solo per omogeneizzare molti e diversi popoli e nazionalità, ciascuno dei quali con la propria concezione del Buen vivir. Tutte queste concezioni, il suma qamaña, il ñande reko, il sumak kawsay, l’ecologia profonda e tante altre si completano tra di loro, mostrano alcune equivalenze e sensibilità convergenti, ed è proprio questa complementarità che permette di delimitare lo spazio di costruzione del Buen vivir che consiste nel riconoscere, rispettare e godere della diversità di saperi e poi riconcettualizzare l’idea occidentale di natura come altro da noi, scomposta in risorse di cui appropriarsi.

Le comunità politiche del Ben vivir non sono composte solo da individui, ma si allargano al non-umano, ovvero altri esseri viventi, elementi naturali e persino soprannaturali. Nonostante ciò il Buen vivir non si limita ad una posizione anti-tecnologica, al contrario, presuppone il fruire dei progressi tecnico-scientifici  senza escludere altre fonti di conoscenza e subordinando quei progressi al principio di precauzione:  uno dei motivi di disputa tra il Buen vivir e le espressioni di sviluppo convenzionale è rappresentato dall’estrattivismo, infatti la posizione del Buen vivir implica il superamento dell’estrattivismo, visto il suo alto impatto sociale e ambientale. Le mete immediate di un programma verso il Buen vivir consistono in due obiettivi primari: zero povertà e zero estinzioni di specie native. La chiave è in un bilanciamento tra conservazione e trasformazione in grado di generare un movimento di cambiamento reale, in cui ogni nuova trasformazione prepari un nuovo passo avanti, evitando la stagnazione e imprimendo un ritmo sostenuto di cambiamento. Iniziative di transizione, orientate specialmente al post-estrattivismo, sono in discussione tra varie organizzazioni sudamericane. Questo insieme di atteggiamenti genera una piattaforma in cui si condividono diversi elementi con uno sguardo rivolto al futuro ed un orizzonte utopico di cambiamento, quali l’abbandono della pretesa di uno sviluppo come processo lineare e la difesa di una nuova relazione con la natura, rifiutando di economizzare le relazioni sociali o ridurre tutto a beni e servizi mercificabili. il Buen vivir definisce qualità della vita o benessere in forme che non dipendono soltanto dal possesso di beni materiali o dal livello di reddito, quali l’importanza assegnata alla ricerca della felicità e del percorso spirituale, predilige infine l’etica al materialismo. Il riconoscimento di valori intrinsechi al non-umano costituisce uno degli elementi più importanti di alternativa alla Modernità occidentale.

http://www.asud.net/index.php?option=com_content&view=article&id=991%3Avivere-meglio-o-lbuen-vivirr&

http://www.ediesseonline.it/catalogo/saggi/buen-vivir

http://www.carta.org/2011/05/buen-vivir-generando-alternative/

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Brie con gusto: il Teatro de los Andes

Il Teatro de los Andes nasce in Bolivia nell’Agosto de 1991, su impulso dell’attore Cesar Brie. Si trova a Yotala, vicino Sucre, ed è un teatro-fattoria dove si preparano e presentano spettacoli, si ospitano artisti, si realizzano incontri e laboratori. L’obiettivo di questa esperienza è formare un attore nel senso etimologico del termine: che fa, che crea. Per questo gli attori si sottopongono ad un allenamento quotidiano dal punto di vista fisico e vocale e lavorano su forme di improvvisazione e composizione a “tornare in sé”. Lo stile è improntato sulla relazione con il pubblico che determina l’uscita del teatro dai teatri per portarlo dove si trova la gente: università, piazze, quartieri, villaggi, luoghi di lavoro, comunità: “Cercare un nuovo pubblico per il teatro e creare un nuovo teatro per questo pubblico. Il teatro è il luogo per eccellenza dove si conosce ‘l’altro’. Noi facciamo un teatro molto legato ai sentimenti del pubblico, non commerciale, che si propone al pubblico come testimone”. Sono 19 anni che ci stanno riuscendo e, ancora oggi, sono in grado lanciare alla gente messaggi importanti: la contaminazione di razze, culture, usi, le migrazioni, crearono sempre nuove forme espressive; si sono perse cose antiche, ma ciò che è sorto dall’incontro e dal miscuglio è una nuova modalità attraverso cui l’uomo di oggi si esprime, figlio della sua condizione, con la memoria aperta a ciò che è stato e la mente proiettata in avanti. Quest’uomo è il soggetto-oggetto di questo teatro.

 Cesar Brie è un giramondo, un po’ per scelta professionale un po’ a causa dell’esilio forzato. Una di quelle persone che dice di essere grata all’esilio perché, sebbene sia stato molto duro, gli ha permesso di conoscere il mondo e le persone, cosa fondamentale per il suo lavoro. Dedica molto del suo tempo alla formazione di altri attori, con altre estetiche perché per lui “Il problema più grande non è formare gente che la pensa come te. Il vero problema è formare persone che abbiano le loro vedute. Gli allievi devono ‘tradire’ i maestri. Questa è l’unica forma di rispetto possibile.” No c’è dubbio che sia un grande maestro! Del suo lavoro teatrale dice: “Spero che vedendo una mia opera lo spettatore veda qualcosa di sé che lo inquieti. Io vorrei divertire e commuovere il pubblico. Vorrei riuscire a non far dormire sonni tranquilli alle persone che assistono a questi spettacoli. Vorrei che riconoscessero se stessi nelle emozioni che hanno vissuto durante la messa in scena.” Spesso Cesar Brie fa tappa in Italia, la sua “terza patria”, vale la pena non perderselo.